Quel corpo che, non nominato, diventa un nemico

Dario Rea e Daria D'Antonio in un momento di «Fat Pig», in scena nel Ridotto del Mercadante (le foto che illustrano l'articolo sono di Marco Ghidelli)

Dario Rea e Daria D’Antonio in un momento di «Fat Pig», in scena nel Ridotto del Mercadante
(le foto che illustrano l’articolo sono di Marco Ghidelli)

NAPOLI – Il tema fondamentale del teatro di Neil LaBute – uno dei più accorsati fra gli autori statunitensi della generazione succeduta a Mamet – è la difficoltà, spesso insormontabile, della comunicazione fra le persone, in particolare fra gli uomini e le donne. Ce lo dimostrò, nel 2013, l’allestimento di «Some girl(s)», presentato dal Bellini per la regia di Marcello Cotugno. E ce lo ribadisce, adesso, l’allestimento di «Fat Pig», che lo Stabile di Napoli presenta nel Ridotto del Mercadante, per la regia di Alfonso Postiglione, nella traduzione dello stesso Cotugno e di Gianluca Ficca.
Il plot verte sulla storia d’amore, brevissima perché impossibile, fra Tom, un impiegato amministrativo, ed Helen, una bibliotecaria in più che evidente sovrappeso. Ed è una storia impossibile in virtù del fatto che Tom non riesce a sopportare i commenti sarcastici o malevoli che circa quel rapporto sciorinano in continuazione i suoi colleghi, soprattutto l’amico Carter e Jeannie, la donna con la quale usciva prima d’incontrare Helen.
Ma, ben al di là della trama, ciò che conta è che il testo – un atto unico diviso in sette scene («Quel primo incontro con lei», «Gli amici al lavoro capiscono», «Una sorprendente serata insieme», «Ritorno al lavoro», «Territori vecchi per la nuova coppia», «Colpi di scena in ufficio» e «Una burrascosa giornata sulla spiaggia») – ripropone ancora una volta il perfetto identificarsi del tema di cui all’inizio con la scrittura adottata da LaBute per svolgerlo: una scrittura asfittica, che spasima ineffettuale in un susseguirsi lento di battute spesso brevi, spesso lasciate in sospeso e ancora più spesso ridotte a scheletrici monosillabi.
La battuta-chiave – non a caso collocata in posizione fortemente icastica (è la prima) e detta da Tom quando in un ristorante vede per la prima volta Helen – suona: «…piuttosto grossa». E la segue, dopo che lei ha replicato con un logico: «Prego?», la spiegazione impacciata: «Scusami, stavo solo, come dire, riflettendo a voce alta. Piuttosto grossa la sala, dicevo». Di modo che, per suo conto, si rivela come l’autentica battuta tematica quella che, specularmente, pronuncerà più tardi Helen: «…Se ne vengono fuori sempre con nomi nuovi per certe cose, qualcosa che faccia sentire le persone meglio…tipo “tecnico dei rifiuti” o roba simile».
In breve, torniamo per l’ennesima volta a Pirandello: al tema capitale del tentativo perenne, e perennemente fallimentare, che compie l’uomo nell’illusione di poter imprigionare la vita – ch’è un susseguirsi di momenti di disgregazione, per giunta slegati l’uno dall’altro – in una Forma unica, per sempre data e per sempre riconoscibile (nell’occasione le proverbiali parole di circostanza). E torniamo, nello stesso tempo, a Cervantes, alla frattura tra le parole e le cose individuata nel «Don Chisciotte». Ancora non a caso, infatti, la scena decisiva di «Some girl(s)» è quella in cui Guy cita per l’appunto il capolavoro cervantino e Tyler replica: «Non ho mai capito di cosa cazzo stessi parlando!».
In «Fat Pig», però, accanto a Pirandello e Cervantes (ed anzi in posizione prevalente) compare Kafka: giacché – riprendo la considerazione che mi è capitato di fare a proposito dello spettacolo di Nekrosius «A hunger artist – Un digiunatore» – il cardine su cui ruota l’intera opera di Kafka è proprio la frattura tra la parola e la realtà: una frattura in conseguenza della quale le cose – private del Nome – acquistano per l’uomo un’oggettualità totalizzante, e insieme ostile e spietata.

Anna Bocchino ed Emanuele D'Errico in un altro momento dell'allestimento di «Fat Pig» diretto da Alfonso Postiglione

Anna Bocchino ed Emanuele D’Errico in un’altra scena dello spettacolo, diretto da Alfonso Postiglione

È quanto accade con il corpo di Helen, ovviamente la principale fra le «cose» qui messe in gioco da LaBute. C’è ma non lo si nomina, almeno non lo nominano (nel senso che non ne nominano le caratteristiche ingombranti) Tom e, si capisce, Helen. La quale ultima, sempre non a caso, già nella prima scena risponde alla battuta di Tom circa Elena di Troia con la perifrasi: «Le mille navi, quella roba lì. Ma era perché così riuscivano a riportarmi indietro…». E aggiunge, dal momento che lui non capisce o finge di non capire: «…perché ce ne vorrebbero tante per sollevarmi. Lascia stare».
Quel corpo possono nominarlo (nel senso che possono nominarne le caratteristiche ingombranti) solo Carter e, specialmente, Jeannie, coloro i quali il corpo di Helen né lo frequentano né, tantomeno, lo possiedono, e che dunque non ne subiscono l’oggettualità totalizzante, e insieme ostile e spietata, di cui ho detto. Così, per esempio, Jeannie può inveire con epiteti del tipo «la tua troia grassa» e la «tua troia cicciona», mentre Helen – continuo con gli esempi – dice a Tom: «È un po’ come se, non so, ci stessimo nascondendo, insomma. Dalla gente» e Tom dice ad Helen, che gli ha rimproverato di aver scelto un posto appartato durante la festa aziendale sulla spiaggia: «[…] volevo solo stare dietro le dune per essere un po’ protetti dal vento. Ecco tutto».
Del resto, due particolari sottolineano e riassumono in anticipo tutto questo: il titolo (giacché «Fat Pig», in inglese «maiale grasso», adotta un’accoppiata sostantivo-aggettivo che determina soltanto un’astratta tautologia) e il verso di Emily Dickinson («Take all away from me, but leave me Ecstasy (Portami via tutto, ma lasciami l’Estasi)» posto in epigrafe al testo, poiché l’estasi, e addirittura l’Estasi con l’iniziale maiuscola, è per l’appunto l’estraniazione della mente dal corpo. E parto proprio da tali titolo ed epigrafe per venire, adesso, all’allestimento in scena nel Ridotto del Mercadante.
È, lo dico con chiarezza e fermezza estreme, un allestimento che – rispetto a quello di «Some girl(s)» firmato da Cotugno, assai lucido e coerente – risulta pesantemente contraddittorio: giacché da un lato punta su un impianto visivo che persegue l’allusività e dall’altro finisce ad occhieggiare la tipica sit-com televisiva, di conseguenza assumendo forme e ritmi volti soprattutto ad ottenere effetti comici.
Così, per esempio, abbiamo – a sottolineare fino all’iperbole (e al pleonasmo) l’aspetto «curvy» del corpo di Helen – un pallone che sta in scena dall’inizio alla fine, e diventa sempre più grande perché di tanto in tanto si continua a gonfiarlo; e abbiamo, di conseguenza, che immancabilmente di forma sferica sono i cibi che mangiano Helen e Tom e che con palline gioca dall’inizio alla fine Carter. Mentre, sempre per fare un esempio, viene completamente stravolto, in chiave di convenevoli sentimentalistici, il momento in cui Helen e Tom si salutano dopo essersi conosciuti.
Nel testo di LaBute Helen scrive il proprio numero di telefono su un lato del tovagliolo di Tom e gli dice: «Così ora mi penserai quando ti pulirai la bocca…», laddove nello spettacolo messo su da Postiglione Helen scrive il proprio numero di telefono su un lato del fazzoletto di Tom e gli dice: «Così mi penserai quando saluterai qualcuno…». Col che, voi lo capite, al realismo sarcastico e persino brutale esibito dall’autore si sostituisce una colloquialità evasiva spinta sino ai limiti del fumettistico.
In un quadro del genere, infine, va collocata e giudicata la prova degl’interpreti: Daria D’Antonio (Helen), Dario Rea (Tom), Emanuele D’Errico (Carter) e Anna Bocchino (Jeannie). Poiché ciò che manca a questo spettacolo è, assolutamente, la crudeltà, ossia proprio il dato che fa l’attualità di un testo come «Fat Pig». E credo, non so se mi spiego, che la recitazione adottata qui abbia molto poco che fare, non dico con la crudeltà ma nemmeno col semplice e innocuo dispetto.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *