Theresa May e la Brexit sconfitte dai ladri e dalle puttane

Un momento di «The Beggar's Opera», presentata al Festival dei Due Mondi con la regia di Robert Carsen (le foto dello spettacolo sono di Patrick Berger)

Un momento di «The Beggar’s Opera», presentata al Festival dei Due Mondi con la regia di Robert Carsen
(le foto dello spettacolo sono di Patrick Berger)

SPOLETO – Con le sessantadue repliche consecutive dopo la «prima» e le milleottantuno dei settant’anni successivi, è sicuramente il lavoro teatrale più popolare del XVIII secolo. Ma «The Beggar’s Opera (L’opera del mendicante)» di John Gay, che davvero non a caso ispirò «L’opera da tre soldi» di Brecht e Weill, conta soprattutto perché costituisce un emblema della lontanissima epoca felice in cui il teatro, del resto coraggioso e conscio della sua natura di assemblea civile, godeva di rispetto e considerazione in seno a una società che, pur tra resistenze, comunque gli consentiva di esplicare un ruolo di coscienza critica.
Infatti – mentre vedevo al Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti l’allestimento di quella che viene ritenuta la prima commedia musicale della storia, presentato dal Théâtre des Bouffes du Nord nell’ambito della sessantunesima edizione del Festival dei Due Mondi – son tornato a riflettere sul fatto che «The Beggar’s Opera» si rivela, più che una parodia dell’opera italiana allora molto amata in Inghilterra, un deciso attacco al primo ministro Sir Robert Walpole (tanto che quest’ultimo venne immediatamente identificato dal pubblico con Peachum) e al gruppo di potere del partito Whig. E tuttavia, per riprendere l’osservazione circa il peso che aveva il teatro nella società dell’epoca, occorre notare che proprio Walpole sedeva fra gli spettatori alla «prima» del 29 gennaio 1728 nel londinese Royal Theatre di Lincoln’s Inn Fields.
Ora, prima di procedere con l’analisi dell’allestimento in questione, garantito dalla firma di Robert Carsen, uno dei migliori registi d’opera lirica del mondo, illustro in breve la forma del capolavoro di Gay. Scritta fra l’ottobre e il dicembre del 1727, «The Beggar’s Opera» consta di tre atti e quarantacinque scene, e ne sono parte integrante sessantanove canzoni adattate dal musicista Johann Christoph Pepusch e scelte fra i brani di maggior successo del folk inglese, irlandese e scozzese, con l’aggiunta di citazioni da Händel e Purcell. E la trama, resa notissima per l’appunto dal rifacimento di Brecht, ruota sul ricettatore Peachum, il quale, come dice il suo cognome (da «to peach», soffiare), non si perita di fare l’informatore della polizia, sul bandito gentiluomo Macheath, sulla figlia di Peachum, Polly, che s’è sposata con Macheath all’insaputa dei genitori, su Lockit, il capo della polizia colluso con Peachum, e su Lucy, la figlia di Lockit messa incinta da Macheath.

Da sinistra, Kate Batter, Benjamin Purkiss e Olivia Brereton in un'altra scena dell'opera di John Gay e Johann Christoph Pepusch

Da sinistra, Kate Batter, Benjamin Purkiss e Olivia Brereton

Ebbene, la prima cosa che fa Carsen è quella di tagliare sia l’inizio che la conclusione di Gay, entrambi riferiti, giusto, alla parodia di cui sopra. Nel primo comparivano un attore e un mendicante che si scusavano con il pubblico per non aver incluso nello spettacolo il prologo, il recitativo e l’epilogo previsti dal melodramma italiano; e nella seconda Macheath, sul punto d’essere impiccato, veniva salvato proprio dall’intervento di quell’attore e di quel mendicante, i quali stabilivano che l’impiccagione del bandito sarebbe stata un errore, perché lo spettacolo in corso di rappresentazione era un’opera e questa, a differenza della tragedia, deve avere per forza un lieto fine. E tagliando un simile inizio e una simile conclusione, Carsen manifesta, ovviamente, la volontà di procedere, nei confronti di «The Beggar’s Opera», a una più che opportuna attualizzazione. Ma – in ciò consistono l’intelligenza e l’efficacia della sua regia – si tratta di un’attualizzazione che viene portata avanti sui binari di un’estrema naturalezza.
Il fondale (le scene sono di James Brandily) è, da terra fino alla graticcia, un muro impenetrabile di scatoloni di cartone. E altri scatoloni sono ammucchiati sulla sinistra. Ma, appena entrati in sala, gli spettatori scorgono ai piedi di quel muro un barbone che si rigira in un sonno inquieto avvolto nelle sue coperte luride e stracciate. E subito dopo irrompe sul palcoscenico un gruppo di scalmanati in giubbotto e cappuccio, anch’essi muniti di scatoloni. Sembrano altri emarginati, e invece tirano fuori dagli scatoloni i loro strumenti. Scopriamo che sono i componenti dell’orchestra. E insomma, l’attualizzazione dell’opera originaria si fonde senza soluzione di continuità con lo spettacolo nel suo farsi.
Dunque, Carsen mette in campo una polisemanticità che si traduce in continui e decisivi slittamenti di senso: gli scatoloni di cartone sono quelli in cui è stipata la refurtiva ricettata da Peachum e, insieme, alludono alle «case» dei senzatetto che compaiono negli angoli delle nostre città. E se immediato e innocuo è il riferimento all’attualità costituito dai cellulari che fanno parte di quella refurtiva, dal notebook di Peachum e dall’accenno ai siti web, la battuta sull’affare dei «finti selfie con Harry e Meghan» è, al contrario, il preludio al finale tremendo annunciato dalla rabbiosa esclamazione «fottuta Brexit!».

Da sinistra, Kraig Thornber e Robert Burt nei panni di Lockit e Peachum

Da sinistra, Kraig Thornber e Robert Burt nei panni di Lockit e Peachum

Qui Macheath è salvato dalla caduta del governo di Theresa May. E il lieto fine di John Gay si tramuta nel fatto che diventano ministri del nuovo governo i ladri e le puttane: ossia coloro i quali, dichiarando senza remore d’essere tali, risultano infinitamente più onesti dei politici che sono ugualmente ladri e puttane ma si professano uomini, cittadini e amministratori pubblici integerrimi.
Inutile, a questo punto, sprecare parole sulla perfezione tecnica dell’allestimento, che s’avvale, oltre che delle citate scene di Brandily, della drammaturgia dello stesso Carsen e di Ian Burton, dei costumi di Petra Reinhardt, delle coreografie di Rebecca Howell, delle luci ancora di Carsen e di Peter van Praet e, soprattutto, delle esecuzioni preziose fornite dai solisti dell’ensemble «Les Arts Florissants», guidati da Marie van Rhijn e che, in linea con la persuasiva attualizzazione di cui ho detto, combinano strumenti antichi, come l’arciliuto e il clavicembalo, e moderni, come le percussioni. E degli interpreti – provenienti dai musical del West End, e tutti bravissimi sul piano, insieme, della recitazione, del canto e del ballo – cito almeno i principali: Benjamin Purkiss (Macheath), Robert Burt (Peachum), Beverley Klein (Mrs. Peachum e Diana Trapes), Kate Batter (Polly Peachum), Kraig Thornber (Lockit) e Olivia Brereton (Lucy Lockit).
Non ho difficoltà, in definitiva, a considerare questo il migliore fra i musical che, in oltre cinquant’anni di carriera, ho visto fra Europa e Stati Uniti. Ma, per concludere, aggiungo che lo spettacolo di cui parliamo ha anche un altro e altrettanto notevole merito. Robert Carsen cominciò, come aiuto regista, proprio al Festival dei Due Mondi. E dunque, il Festival dei Due Mondi, che, accogliendo questo spettacolo di Carsen, dimostra di aver seminato bene, e Carsen, che è approdato a questo spettacolo dopo quarant’anni (a far data da quell’esordio umile) di lavoro e di esperienze, rendono insieme onore alla propria storia, e così danno una sacrosanta lezione a chi (persone o eventi, e quindi pure festival) una storia non ce l’ha (o, almeno, non ce l’ha ancora) e tuttavia s’impanca a modello imprescindibile.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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2 risposte a Theresa May e la Brexit sconfitte dai ladri e dalle puttane

  1. Francesco Scotto scrive:

    Gentile Enrico Fiore,
    veramente uno strepitoso spettacolo con musiche (nel teatro dove 42 anni fa, per coincidenza nelle stesse date, debuttava “La Gatta Cenerentola”). L’ovazione finale tributata agli interpreti e ai musicisti è la dimostrazione che un lavoro ineccepibile per contenuti e messa in scena nobilita un Festival.
    Un cordiale saluto.
    Francesco Scotto

  2. Enrico Fiore scrive:

    Siamo perfettamente d’accordo, dunque.
    Le ricambio il saluto, con altrettanta cordialità.
    Enrico Fiore

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