Sei Personaggi in cerca di farsa. Con problemi di prostata

Un momento di «Sei», in scena ancora oggi al San Ferdinando (la foto è di Gianni Fiorito)

Un momento di «Sei», in scena ancora oggi al San Ferdinando (la foto è di Gianni Fiorito)

NAPOLI – Avevo appena (per l’esattezza ventitré giorni fa) manifestato tutto il mio sconcerto e tutta la mia irritazione per «Sei. E dunque, perché si fa meraviglia di noi?», la cervellotica rivisitazione di «Sei personaggi in cerca d’autore» presentata da Roberto Latini a Castrovillari nell’ambito del festival «Primavera dei Teatri», che sono costretto a ripetermi – aggiungendo allo sconcerto e all’irritazione un rammarico persino doloroso – di fronte a «Sei», l’adattamento del capolavoro pirandelliano presentato dalla compagnia Scimone-Sframeli nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia.
Tralascio ogni considerazione sul fatto evidente che i teatranti sempre più spesso si copiano fra loro, addirittura a partire dal titolo delle messinscene: è un fatto che costituisce un’ulteriore riprova dello stato comatoso in cui continua a versare il teatro, ad onta delle chiacchiere trionfalistiche e ormai semplicemente ridicole degli addetti ai lavori. E passo subito ad illustrare, brevemente, in che cosa consiste lo spettacolo in scena ancora oggi al San Ferdinando.
L’intento, palese e dichiaratissimo, è quello di ridurre «Sei personaggi in cerca d’autore» a una farsa. Infatti, si comincia, si prosegue e si finisce nel segno dell’ipertrofia della prostata che affligge il tecnico delle luci. Nella prima scena gli attori che stanno provando restano improvvisamente al buio e quel tecnico non interviene perché, come sempre più spesso accade, è chiuso nel bagno. Nella scena che si svolge in casa di Madama Pace il Padre non può andare in bagno perché, appunto, ci sta chiuso il tecnico delle luci. E nella scena conclusiva compare, al posto dei Personaggi richiamati da Pirandello «come forme trasognate», il tecnico delle luci che si richiude la patta dei pantaloni.
Il tutto viene condito con le battute del Capocomico: «Un fatto del genere è impensabile e nella storia del teatro non s’è mai verificato!» e «Nessuna compagnia, in teatro, è rimasta al buio per colpa della prostata di un tecnico». Mentre, a salvarsi l’anima (leggi: a dare al copione una parvenza d’impegno e di collegamento con l’attualità), provvedono le battute iniziali circa la paura che quello spettacolo in prova non riuscirà mai a debuttare e le frecciatine contro le cassandre che insistono a dire che la professione dell’attore «non la considera più nessuno» (anzi, precisa il Secondo Attore, «non la caga più nessuno») e che il teatro è «inutile» perché è «morto». Con l’annessa arringa del Capocomico in chiave di mistica del teatro: «Voi non siete inutili, non siete degli esseri inutili, voi attori il teatro non lo dovete mai abbandonare, anche se vi vogliono cacciare voi attori dal teatro non ve ne dovete mai andare, perché senza di voi la commedia non si può fare, non si potrà mai fare».
Il resto – e si capisce, in stridente contrasto con tutto quanto sopra – è occupato da una selezione dei passi capitali del testo di Pirandello, il cui plot, a causa dei drastici tagli apportati al testo medesimo (lo spettacolo dura solo un’ora e venti minuti), risulta pressoché incomprensibile a chi non lo conosca. Né, è proprio il caso di dire, accende lumi la recitazione degl’interpreti in campo: a cominciare da Spiro Scimone (il Capocomico) e Francesco Sframeli (il Padre), manifestamente a disagio (è il loro primo Pirandello) nel rendere una scrittura lontanissima dalla propria, per finire ai comprimari, tutti penalizzati da non meno evidenti cadenze siciliane e, soprattutto, da paralizzanti carenze tecniche. Senza contare la regia (vogliamo dire evanescente, per usare un caritatevole eufemismo?) dello stesso Sframeli.
Insomma, mi tocca porre di nuovo l’interrogativo che già ho posto a proposito del «Pericle, principe di Tiro» di Donnellan: perché? Perché Spiro Scimone e Francesco Sframeli si son dati, con questo pateracchio (messo in piedi, nientemeno, dallo Stabile di Torino, dal Biondo di Palermo e dal Théâtre Garonne-Scène Européenne Toulouse), a gettare fango sulla loro storia preziosa e sul loro impareggiabile teatro che mescola Ionesco, Beckett e Pinter con l’indifesa e tuttavia impavida poesia della nostra più carnale quotidianità?
Mi cadono le braccia. Giacché ho ancora negli occhi (e assai difficilmente riuscirò a dimenticarlo) lo splendido «Amore» che nel marzo di due anni fa corsi a vedere ad Arcavacata, nel Teatro Auditorium dell’Università della Calabria, con un viaggio massacrante ma che poi benedissi.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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