Se la testa di Iokanaan diventa la testa di Salomé

Eros Pagni e Gaia Aprea in un momento di «Salomé» (le foto dello spettacolo sono di Fabio Donato)

Eros Pagni e Gaia Aprea in un momento di «Salomé»
(le foto dello spettacolo sono di Fabio Donato)

POMPEI – Uno «studio sull’ossessione». Così Steven Berkoff, regista di un indimenticabile allestimento di quel dramma presentato nel 1993 al Festival dei Due Mondi di Spoleto, definì «Salomé» di Oscar Wilde. E non v’è dubbio che si tratti di una definizione assolutamente fondata, e non meno esaustiva.
Infatti, l’atto unico in questione – scritto a Parigi fra il novembre e il dicembre 1891 – fu composto da Wilde in francese. Perciò metto l’accento acuto sulla «e» di «Salomé». Ma quello utilizzato da Wilde è un francese elementare e addirittura infantile sotto il profilo grammaticale. E al riguardo, mentre il primo anonimo recensore osservò, sul «Times», che «Salomé» faceva pensare agli esercizi per principianti di Ollendorff, il Berlitz di allora, qualcuno, più avvertito, tirò in ballo i procedimenti analoghi del contemporaneo Maeterlinck.
Insomma, occorre convincersi che, nella circostanza, Wilde indossò – con la civetteria che gli era congeniale – una vera e propria «maschera» stilistica, sicché il fascino malato e decadente di «Salomé» scaturisce per l’appunto dal contrasto fra l’esibita (e, dunque, finta) ingenuità del linguaggio e la serpeggiante (e, dunque, autentica) velenosità dell’argomento trattato.
Tale contrasto, poi, si annulla in quello ch’è l’autentico tema portante del dramma: l’inno perenne che Wilde eleva all’attrazione sensuale esercitata dal corpo. Vedi la sequenza, bellissima, in cui Salomé prima loda, giusto, il corpo e i capelli di Iokanaan e poi li disprezza, con uguale passione, quando lui la respinge e la maledice. In breve, qui il corpo è tutto e il contrario di tutto. E addirittura accoglie in sé il mondo intero: vedi le sequenze, non meno belle, che stabiliscono un’identità perfetta fra il corpo medesimo e la natura in genere o singoli elementi di essa (a partire, ovviamente, dall’identità stabilita fra la luna e la donna, di volta in volta – ecco, ancora, il tutto e il contrario di tutto – una morta in cerca di morti o una femmina isterica in cerca d’amanti).
Quest’inno, infine, s’esalta ed esaspera nel richiamo – ossessivo, appunto – esercitato in particolare dalla bocca del Profeta, oggetto, ad un tempo, di una preghiera accorata («Laisse-moi baiser ta bouche, Iokanaan – Lasciami baciare la tua bocca, Iokanaan») e di una «certezza» tanto proterva quanto disperata («Je baiserai ta bouche, Iokanaan – Io bacerò la tua bocca, Iokanaan»). E, in altri termini, il corpo, avendo inglobato il mondo intero, finisce ad esaurirsi in sé, prigioniero – e proprio sul piano sessuale – di una strenua ineffettualità. Il testo di Wilde, dunque, è un’interminabile masturbazione che non arriva mai all’orgasmo. E il desiderio di morte che lo attraversa dall’inizio alla fine rappresenta, oltre ogni dubbio, l’equivalente dell’ineffettualità di cui sopra.

Oscar Wilde

Oscar Wilde

Di qui quella che, pronunciata da Erode, è altrettanto indubbiamente l’autentica battuta-chiave del dramma: «Il ne faut regarder ni les choses ni les personnes. Il ne faut regarder que dans les miroirs. Car les miroirs ne nous montrent que des masques (Non bisogna guardare né le cose né le persone. Bisogna guardare solo negli specchi. Perché gli specchi non ci mostrano che delle maschere)».
Ora, Luca De Fusco – regista dell’allestimento di «Salomé» che ha aperto nel Teatro Grande la seconda edizione della rassegna «Pompeii Theatrum Mundi» promossa dallo Stabile di Napoli – mostra, sì, di rendersi conto del punto centrale di questo discorso: poiché, nelle sue note, ricalca pari pari le risapute teorie di René Girard circa il «desiderio mimetico», concludendo, giusto, che Salomé «si specchia nel profeta»; ma il problema è che tale consapevolezza rimane confinata nelle note predette, senza che informi di sé l’allestimento.
Lo dimostra, per cominciare, la traduzione di Gianni Garrera. Il quale, nella battuta di Erode citata, sostituisce le «maschere» con «sagome innocue»: ciò che, s’intende, non solo non significa assolutamente niente, ma cancella drasticamente il senso profondo del testo di Wilde che ho cercato d’illustrare e di cui, ripeto, quella battuta costituisce la chiave.
Come si vede, espongo un dato di fatto incontrovertibile, non una mia opinione. E potrei pure fermarmi qua, se non ci fossero da esporre – per completare l’informazione a vantaggio degli spettatori – altri dati di fatto incontrovertibili: primi fra tutti quelli relativi alla sequenza conclusiva della rappresentazione, che contiene la principale e più eclatante invenzione di De Fusco.
Al termine di una passeggiata su e giù per le gradinate, Salomé rientra nello spazio scenico, leva in alto la testa di Iokanaan emersa dal sottopalco sul famoso vassoio d’argento, se la stringe al petto e quindi, dimenandosi a terra, se la preme sul ventre e tra le cosce. Finché – ecco il «finale sorprendente» annunciato da De Fusco nelle sue note di regia – si mette prona, nasconde sotto di sé la testa del profeta e poi, quando si rigira, oplà, leva in alto un’altra testa, la riproduzione della propria.

Da sinistra, Eros Pagni, Anita Bartolucci e Gaia Aprea in un altro momento di «Salomé»

Da sinistra, Eros Pagni, Anita Bartolucci e Gaia Aprea in un altro momento di «Salomé»

Siamo fra il Grand Guignol e la prestidigitazione. E comunque, questo «finale sorprendente» appare abbondantemente appiccicato, si risolve in una pura immagine e in un puro espediente spettacolare: poiché, per il resto, la rappresentazione si adagia in una pigra narratività di stampo naturalistico, scandita dalle solite proiezioni che De Fusco ammannisce ad ogni pie’ sospinto come un ritrovato mirabolante e connotata – per fare un esempio, quello obbligato – da una danza dei sette veli che non ha niente da invidiare ai balletti televisivi, compresi gli sculettamenti da «ragazza coccodè» e un Erode debitamente lascivo che si porta sulla faccia ciascuno di quei veli fatidici baciandolo e annusandolo.
Completano il quadro i costumi da cartolina affibbiati ai cortigiani e ai farisei, mentre Salomé ha la testa rasata e cosparsa di brillantini, quasi da aliena di una fiction di fantascienza, e indossa un lungo abito bianco da sera. Un miscuglio che fa il paio con la recitazione di Gaia Aprea, oscillante senza una precisa e riconoscibile strategia fra toni di volta in volta frou-frou, insinuanti e declamatori. Spicca decisamente Eros Pagni, forse l’ultimo grande interprete italiano di tradizione, che, appropriandosi il ritratto di Erode dipinto da Wilde con i colori del sarcasmo, del grottesco e del nevrotico, fornisce una prova d’attore fra le più rilevanti degli ultimi anni.
Non più che professionalmente corretti, fra gli altri, Giacinto Palmarini (Iokanaan) e Anita Bartolucci (Erodiade). Ma, per concludere, occorre chiedersi che cosa possa mai dire un allestimento siffatto agli spettatori di oggi.
Steven Berkoff (e torno, così, al punto da cui sono partito) trasformava il festino di Erode in un cocktail party degli anni Venti, calato in un’atmosfera da Art Nouveau e animato (si fa per dire) da una torma di dandy e cocottine dalle facce gessate, manichini insulsi che si muovevano e parlavano al rallentatore. Di modo che (e via, naturalmente, gli orpelli orientaleggianti, la danza dei sette veli e la testa mozzata del Battista) prendeva corpo un gelido rituale in cui l’impotenza presente nel testo di Wilde diventava il disfacimento della società capitalistica occidentale (in quanto ordine e morale costituiti) al tramonto del secondo millennio.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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2 risposte a Se la testa di Iokanaan diventa la testa di Salomé

  1. Raffaele Mastroianni scrive:

    Uno spettacolo inutile, il raccontino di una ripicca amorosa.
    Uno schermo che ogni tanto si collega come in un programma tv con il volto santo in diretta da un altro studio.
    Un grande Eros Pagni.
    Una Salomé che ha l’unico merito di riportarci alla mente il grande Lindsay Kemp.
    Ormai non è più un sospetto: lo Stabile di Napoli sceglie i testi solo per arricchire un curriculum d’attrice.
    Che tristezza: nel giorno della morte di Carlo Giuffré vanno in scena senza abbassare il sipario, abbassare una luce, senza ricordarlo un attimo.
    Raffaele Mastroianni

  2. Enrico Fiore scrive:

    Davvero: che tristezza.
    Enrico Fiore

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