Isabelle Huppert e la lettura dell’amore impossibile

Isabelle Huppert in un momento del «reading» su «L'amante» (foto di Salvatore Pastore)

Isabelle Huppert in un momento del «reading» su «L’amante» (foto di Salvatore Pastore)

NAPOLI – Indossava un abitino bianco, leggero e senza maniche. Si è seduta per qualche momento – all’inizio, a metà e alla fine dell’esibizione – su una poltrona girevole (pour cause, di stile vagamente coloniale) piazzata al centro del palcoscenico e per il resto è stata in piedi dietro un leggìo, girando con la sinistra le pagine del copione. Salvo darsi sporadicamente a passeggiatine e giravolte su se stessa a tempo con musiche alternativamente sognanti o ballabili.
Ecco, è stato questo l’«evento» – proposto al San Carlo dal Napoli Teatro Festival Italia – di Isabelle Huppert che porgeva brani de «L’amante» di Marguerite Duras: appunto una semplice lettura, un «reading», come direbbero gli scrivani adusi alle mode. E dunque, la mia recensione, se di recensione è il caso di parlare, non può che limitarsi all’ovvia constatazione dello stile raffinato in cui l’attrice francese ha racchiuso la sapiente tela d’intonazioni della voce, espressioni del viso e gesti delle mani prestata alle parole della Duras. Giova, piuttosto, fare qualche considerazione circa l’oggetto della lettura in questione.
La Huppert, scegliendo di leggere brani de «L’amante», ha fatto – rispetto alla Duras – la scelta più facile e comoda: in ragione della notorietà di quel romanzo, insignito del Premio Goncourt e tradotto nel 1992 in un film diretto da Jean-Jacques Annaud; e, soprattutto, in ragione del «topos» romantico incarnato dalla trama: il tema dell’amore impossibile e qui, per giunta, proibito, trattandosi della relazione, nata nell’Indocina francese, fra una quindicenne bianca, figlia di poveri coloni, e un ricco ereditiere cinese.
Ma «L’amante», datato 1984, denuncia non pochi limiti: sconta, per cominciare, l’influenza della letteratura nordamericana (in particolare di Hemingway e di Steinbeck) e persino il ricalco di stilemi e atmosfere del nostro Pavese; e, poi, è gravato dalla circostanza che si riduce, sostanzialmente, a un’opera autobiografica. Infatti, traspone la storia autentica della Duras adolescente che a Vinh-long, un piccolo centro vicino al fiume Mekong, s’innamorò del figlio di un possidente cinese, Huynh Thuy Le. E tanto senza dimenticare che, non a caso, la stessa Duras era evidentemente scontenta di quel romanzo, al punto che, dopo l’uscita del film di Annaud, sentì il bisogno di riscriverlo, col titolo «L’amante della Cina del Nord».
In breve, sarebbe stato molto più interessante se Isabelle Huppert avesse scelto di leggere brani di «Moderato cantabile», il testo che diede l’avvio alla fase sperimentale della scrittura della Duras, legata al «nouveau roman», e che costituisce un esempio probante di quello che la stessa scrittrice francese definì «stile paratattico»: uno stile che, fra l’altro, prevede proposizioni principali (tipo «sono qui», «mi vedo», «ti sento») particolarmente adatte, se parliamo di teatro, a un monologo. Tanto è vero che proprio su «Moderato cantabile» si basava il «reading» con cui quattro anni fa Milena Vukotic rese omaggio alla Duras.
In proposito, rivado con la mente a ciò che fece la Huppert con la lettura, forse la sua prima in Italia, offerta, corrente il 2002, nell’ambito dell’edizione iniziale dell’Ortigia Festival di Siracusa diretta da Roberto Andò. Propose brani di Nathalie Sarraute, la scrittrice che, per l’appunto, fu tra i principali esponenti del «nouveau roman» insieme con Robbe-Grillet e Butor. Per la cronaca, i testi affrontati erano «Tu non ti ami», «Infanzia», «Tropismi» e «L’uso della parola». Ma, questo è il punto decisivo, l’emblematicità dei testi letti trovava un perfetto riscontro nel luogo in cui venivano letti.
Isabelle Huppert li lesse nell’«Orecchio di Dionisio», la grotta nella quale il tiranno di Siracusa chiudeva i presunti cospiratori per aver modo di ascoltarne, da una camera sovrastante, tutte le parole, anche se dette a voce bassissima: e quale fu lo scopo precipuo di Nathalie Sarraute, la scrittrice che la Huppert assumeva come «oggetto» della sua esibizione, se non quello di far emergere «la vita del di sotto» che spasima dietro le frasi vuote e convenzionali di cui s’ammanta «la vita del di sopra»?
Si creava, così, un corto circuito mentale che, indotto dall’insolita «location» in questione, riduceva le parole pronunciate dall’attrice proprio al fatto che la Sarraute mette completamente al bando la trama e i fatti intesi nel senso tradizionale del termine: nei suoi testi, e la trama e i personaggi sono sostituiti dai movimenti psicologici, e per giunta da movimenti psicologici allo stato nascente, in fase di formazione e, quindi, nemmeno essi percepibili chiaramente e direttamente.
Non occorre che perda tempo a sottolineare la differenza con la lettura de «L’amante»: non solo data in un luogo ufficiale come il San Carlo, ma, per giunta, inscritta nella colloquialità e in una robusta mimesi naturalistica, accattivante e rassicurante quanto basta. E insomma, avete capito che cosa voglio dire. Il «reading» di cui parliamo costituisce una riprova indiscutibile della mancanza d’identità e dell’ossequio alla «normalità» che, come ho scritto anche sul «Corriere del Mezzogiorno», caratterizzano quest’edizione del Napoli Teatro Festival Italia.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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