Il lavoro? È un «work in progress» smarrito fra i sogni

Un momento di «Work in progress», in scena al Teatro delle Passioni di Modena (le foto dello spettacolo sono di Luca Del Pia)

Un momento di «Work in progress», in scena al Teatro delle Passioni di Modena
(le foto dello spettacolo sono di Luca Del Pia)

MODENA – «Mi puoi descrivere una tua giornata di lavoro tipo?». «Hai letto il tuo contratto di lavoro quando hai firmato?». «Il tuo lavoro è connesso alla tua formazione?». «Quali sono le tue speranze per il futuro?». «Come ti immagini tra dieci anni?». «Che cos’è per te il lavoro?». «Hai votato?».
È partito da queste domande fra le altre del genere «Work in progress», lo spettacolo che Emilia Romagna Teatro presenta nel Teatro delle Passioni di Modena. Si tratta dell’esito del corso di alta formazione «Perfezionamento: attore internazionale della comunità». E a porre le domande citate sono stati sedici attori di ogni parte d’Italia (otto uomini e otto donne, fra i ventidue e i trentatré anni) che, selezionati tramite un bando pubblico, nel corso di circa quattro mesi hanno realizzato a Modena e nel territorio circostante qualcosa come un centinaio d’interviste anonime con persone fra le più varie, compresi gl’immigrati di origini etniche diverse. Dopo di che Gianina Cărbunariu, quarantunenne autrice e regista rumena che pratica da sempre un teatro strenuamente legato al presente, ha elaborato insieme con gli attori in questione i dati così raccolti e ne ha ricavato il testo che adesso va in scena, tradotto da Roberto Merlo.
Ma fin qui abbiamo parlato solo della prima e più immediata spiegazione del titolo, relativa, per l’appunto, al metodo con cui è stato costruito lo spettacolo. Poiché ce n’è anche una seconda, e decisiva, che si riferisce al carattere liquido, per dirla con Bauman, della società contemporanea, connotata da uno squilibrio frequente, da crisi ricorrenti e, in ogni caso, da continui e vorticosi cambiamenti. Ed è nell’ambito di questa seconda spiegazione che vanno rintracciati le ragioni profonde e gli approdi concettuali – le une e gli altri rilevanti, e non meno intriganti – del copione assemblato dalla Cărbunariu.

Gianina Cărbunariu

Gianina Cărbunariu

Infatti – ecco l’idea eccellente che sta alla base del testo – le storie che avevano preso corpo nelle interviste di cui sopra adottano la forma di quattordici sogni: che ci presentano, tanto per fare solo qualche esempio, conducenti che constatano come a prendere gli autobus siano ormai solo «gli studenti, i vecchi, i negri e gli zingari», una manager che si lamenta perché i clienti diminuiscono mentre i ristoranti sono sempre affollati, un ventiquattrenne che ha ottenuto il Premio Nobel per la Pace avendo inventato la formula semplicissima («rinunciare a respirare e a mangiare») per risolvere i problemi del mondo, un’operaia che si trasforma nel cavo elettrico non a norma che le ha dato la scossa per poter abbracciare il capo che la insidia, una ragazza che parla nel sonno e sembra strana non perché parla nel sonno ma perché pretende dalla cooperativa il contratto D2 che spetta ai laureati…
In breve, «Work in progress» è uno spettacolo riuscito, e oltremodo interessante, perché, mentre prende le mosse da un realismo persino moltiplicato (vedi, poniamo, il fatto che gli attori che interpretano i conducenti di autobus usano i dialetti delle regioni da cui provengono), contemporaneamente sposta quel realismo in una dimensione simbolica, in maniera da evitare che precipiti nelle sabbie mobili della retorica o, peggio, dell’ideologismo. E assolutamente straordinario risulta, in tal senso, il sogno intitolato, non a caso, «Scena madre». Ne è protagonista l’attore che avrebbe dovuto recitare un pezzo bellissimo su «come si deve rischiare, sulla fiducia in se stessi e negli altri, sulle paure che puoi trasformare in qualcosa di positivo, sugli incubi a cui non permetti di distruggerti né di distruggere quelli che ti stanno intorno» e che, però, non se lo ricorda.
Sarà per la prossima replica, dice al pubblico. E commenta: «È un momento… un momento da sogno. Sul serio». Si poteva arrivare a uno straniamento più radicale e, insieme, divertente, anche nei confronti del teatro come pura rappresentazione di cui «Work in progress» costituisce un salutare opposto?
Aggiungo che, inoltre, l’allestimento si rivela connotato da una coerenza strutturale davvero esemplare. A cominciare dall’impianto scenografico di Mihai Păcurar, il quale dissemina lo spazio nudo di segni bianchi che sembrano le venature del marmo: un qualcosa che, dunque, esula dall’uniformità, dal colore di fondo, il nero, del pavimento e del fondale. Ed è, s’intende, ciò che hanno realizzato le interviste propedeutiche allo spettacolo: il passaggio dall’indifferenziato di una condizione generale alle esperienze individuali.

Un altro momento di «Work in progress»

Un altro momento di «Work in progress»

Per quanto si riferisce, poi, all’aspetto formale della rappresentazione, risulta evidente che la regia della Cărbunariu le ha conferito, intelligentemente ed efficacemente, i modi e i ritmi di un musical, con le relative sequenze canore e le coreografie di Alessandro Sciarroni. Giacché, ovviamente, anche sul piano dello spettacolo in sé si trattava di mettere in campo un adeguato straniamento: e la bravura degli attori sta nel fatto che praticano, contemporaneamente, la dimensione corale e quella solistica, passando sistematicamente e disinvoltamente dall’una all’altra.
Non a caso, la parte finale della battuta pronunciata da un singolo attore risulta spesso raddoppiata, con un effetto d’eco, perché nello stesso tempo la pronuncia anche il resto della compagnia. Ed è inutile dire che, con efficacia non minore, lo straniamento assume cadenze insieme lievi, perse in un gioco svagato, e doloranti. Ad esempio, sono vestite come ballerine classiche, con tanto di tutù, e la giovane badante rumena e la vecchia che pretende di tenerla con sé pure nella morte. Senza contare l’acme drammatico che si raggiunge nel sogno numero 13: all’attore che accenna a cantare «Volare» se ne sovrappone, subito, un secondo che prende a raccontare del volo di un operaio giù dall’impalcatura.
Mi è tornato in mente l’immenso Raffaele Viviani, che come nessun altro descrisse lo strazio e la colpa delle morti sul lavoro: «All’acqua e a ‘o sole fraveca / cu na cucchiara ‘mmano, / pe’ ll’aria ‘ncopp’a n’anneto, / fore a nu quinto piano. / Nu pede miso fauzo, / nu muvimento stuorto, / e fa nu vuolo ‘e l’angelo: / primma c’arriva, è muorto».
Allo stesso modo, si capisce, funziona la colonna sonora, che parte, impagabilmente, con la ninna nanna di Brahms e prosegue, poniamo, con «Fimmine fimmine», un canto di lavoro salentino, «El ciodo del fero vecio», un canto popolare veneto, e «Pick a bale of cotton», un canto degli schiavi statunitensi. E pure nel canto risultano assai bravi, giovandosi della preparazione loro fornita da Cristina Renzetti, i sedici interpreti in scena. Li nomino tutti senza distinzione: Francesca Camurri, Enrico Caroli Costantini, Roberta De Stefano, Vladimir Doda, Luigi Feroleto, Michele Galasso, Mattia Giordano, Leo Merati, Federica Ombrato, Giulia Quadrelli, Chiara Sarcona, Maria Vittoria Scarlattei, Giacomo Stallone, Marco Trotta, Valentina Vandelli e Maria Luisa Zaltron.
In conclusione, questo «Work in progress» rappresenta un esempio persuasivo di che cosa può (e deve, pena la sua morte) fare oggi il teatro: mettersi in contatto con la società e ritrovare la sua natura di assemblea civile.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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