Canone a due corpi sul basso ostinato dell’amore

Maria Kraakman e Gijs Scholten van Aschat in un momento di «The Year of Cancer» (le foto che illustrano l'articolo sono di Sanne Pepper)

Maria Kraakman e Gijs Scholten van Aschat in un momento di «The Year of Cancer»
(le foto che illustrano l’articolo sono di Sanne Peper)

MILANO – «Amore, amore, come sempre / vorrei coprirti di fiori e d’insulti». Potrebbero essere questi due versi di Cardarelli, compresi nella poesia «Attesa», a costituire l’epigrafe per «The Year of Cancer», lo spettacolo, tratto dall’omonimo romanzo di Hugo Claus, che la compagnia Toneelgroep di Amsterdam presenta ancora oggi e domani, al Teatro Strehler, per la regia di Luk Perceval. E di conseguenza, ben a ragione possiamo citare Deleuze: «In amore l’essenza s’incarna anzitutto nelle leggi della menzogna».
Infatti, mentiamo, evidentemente, sia se diciamo di amare una persona che nello stesso tempo vorremmo coprire d’insulti sia se diciamo di voler coprire d’insulti una persona che nello stesso tempo amiamo. È un ossimoro invalicabile. E qui, a metterlo in scena (ossia, menzogna nella menzogna, a recitarlo), sono un uomo e una donna, non più giovani, che dopo essere stati innamorati vorrebbero lasciarsi ma non ci riescono. E giustamente, perciò, il fiammingo Perceval, alla prima regia in Italia, dice del romanzo di Claus: «È un racconto spietato. Spietato perché mostra l’amore nella sua provvisorietà».
Mi torna in mente il testo di Pascal Rambert «Clôture de l’amour». L’autore volle mantenere anche nella versione in italiano il titolo francese: perché l’espressione «clôture de l’amour» è in qualche modo intraducibile, significa sia «fine dell’amore» sia «recinzione dell’amore» (per proteggerlo). E dunque, torniamo all’ossimoro di cui sopra: da un lato la passività (l’amore che è finito) e dall’altro l’azione (l’amore che si tenta di preservare, non fosse che come ricordo), da un lato le parole (quelle dell’analisi intellettuale che procede per esclusioni) e dall’altro la vita (che non butta mai niente, nemmeno l’illusione dell’amore, nemmeno l’illusione che l’amore sia «un week-end permanente»).
Molti, del resto, sono gli echi che desta «The Year of Cancer». Penso, per esempio, ad «Encore», lo spettacolo di Theodoros Terzopoulos che vidi l’anno scorso al Teatro delle Passioni di Modena: anche in esso si dava luogo a un duello – insieme amorevole e feroce – tra un uomo e una donna, e anche in esso quel duello si traduceva in uno scontro inesausto fra le parole e il corpo che, come in «The Year of Cancer», era in pari tempo un abbraccio e un interscambio: le parole non erano, come non sono qui, che un’estensione del corpo dell’uomo e della donna in campo.

Un altro momento dello spettacolo

Un altro momento dello spettacolo

In fondo, allora, quell’uomo e quella donna potrebbero ripetersi a vicenda il verso iniziale di «Elsa», rivolto da Aragon alla Elsa Triolet che fu la sua donna e la sua musa: «Je vais te dire un gran secret. Le temps c’est toi». Perché quell’uomo vive nel futuro (ha una relazione con Antje, che sposerà e dalla quale avrà una figlia) e quella donna nel passato (si preoccupa continuamente del marito che sta tradendo, Karel, e della figlia che sta trascurando, Meesje). Sicché, per l’appunto, il tempo in sé si annulla, resta solo il tempo che, qui e ora, s’identifica con lui e con lei.
Per quanto poi concerne la struttura di questo spettacolo – che, affrontando un tema cruciale, non a caso ha letteralmente sconvolto la non facilmente impressionabile Amsterdam – osservo che ricorda il celebre Canone di Pachelbel.
Il Canone, la più semplice e insieme la più rigorosa forma di scrittura polifonica, è caratterizzato dalla sistematica imitazione fra le voci; e quello di Pachelbel, che volle coniugare il ferreo contrappunto del Nord e la melodia cantabile del Sud, realizza ben ventotto variazioni sulla base del basso continuo. Di modo che, parafrasando la definizione tecnica della composizione del grande organista di San Sebaldo, «canone a tre voci su un basso ostinato», siamo autorizzati a parlare di «The Year of Cancer» come di un canone a due corpi sul basso ostinato dell’amore.
È ovvio, quindi, che, riferendomi all’imitazione fra le voci, non parlo delle voci dell’uomo e della donna che abbiamo di fronte nella circostanza, ma, giusto, delle «voci» rappresentate dal corpo e dalla parola. E sta in questo, credo, lo scatto decisivo dello spettacolo: qui, per riassumere, il basso ostinato è, come dicevo, l’amore e l’uomo e la donna sono, proprio nella loro fisicità, autonoma rispetto alle parole che pronunciano, le ventotto variazioni di Pachelbel.
Ce lo comunica già la scena di Katrin Brack, che popola l’intero spazio di una folla di bambole gonfiabili maschili, sospese a varie altezze ma tutte con il membro eretto: a significare, per contrasto, l’impotenza delle parole pronunciate da quell’uomo che s’illude di porre, con esse, un argine alla precarietà e alla deperibilità dell’amore. E dal canto suo, Perceval dissemina in proposito una serie continua di segnali, oltremodo pregnanti e inequivocabili, sul cammino dei due innamorati avviati verso la trasformazione dell’amore in abitudine prima, fastidio poi e risentimento infine.

Ancora un'immagine di «The Year of Cancer», in scena al Teatro Strehler di Milano

Ancora un’immagine di «The Year of Cancer», in scena al Teatro Strehler di Milano

Cominciano esibendosi in un saltellìo che è come un esercizio ginnico di riscaldamento per prepararsi allo scontro che li attende. Oppure stanno torace contro torace a respingersi vicendevolmente indietro senza, però, riuscire a staccarsi. O, ancora, fuggono in una danza svagata e immemore quando si rendono conto dell’inutilità di continuare a discutere.
D’altronde, l’adattamento teatrale del romanzo di Claus, firmato dallo stesso Perceval insieme con Peter van Kraaij, dichiara e sottolinea il progressivo slittare dell’amore verso la sua corruzione come meglio non si potrebbe. A lei che dice: «Forse, quando s’incontra il grande amore della propria vita, bisogna prima guardarsi intorno e vivere altre esperienze. E poi tornare indietro, dopo aver considerato bene tutto» lui replica: «Sì, ma a quel punto è troppo tardi».
L’acme di questo duello all’ultimo disamore si raggiunge quando la donna tira giù una delle bambole gonfiabili maschili, le strappa il pene e se lo ficca in bocca, per poi cacciarsi nelle mutandine, appallottolata, la bambola ormai sgonfia. E certo, l’uomo tenta di rigonfiare quella bambola; ma presto ci rinuncia. E d’altronde, se pure ci fosse riuscito, sarebbe comunque rimasta una bambola gonfiabile maschile senza il pene.
Capite, dunque, che «The Year of Cancer» è anche uno spettacolo molto forte, a tratti addirittura violento. E questo a prescindere dalle descrizioni più che esplicite delle pratiche sessuali a cui si dedicano i due personaggi. Ma è anche uno spettacolo molto tenero, a tratti addirittura sognante. E la musica di Jeroen van Veen che lo accompagna, da lui stesso eseguita in scena al pianoforte, somiglia proprio all’intreccio fra contrappunto e melodia di cui ho parlato a proposito del Canone di Pachelbel. È percussiva e carezzevole insieme.
Infine, la conclusione, straziante e, tuttavia, riscattata da una poesia nello stesso tempo smarrita e indomita. Lei scompare sul fondo della scena e lui, rimasto solo al proscenio, racconta di come quella sua amante perduta sia poi morta di cancro. E sulla sua testa, mentre racconta, le bambole gonfiabili maschili, sempre col membro eretto, prendono ad oscillare come sospinte da un vento lieve. È il soffio della vita, capace persino, quando ispira un sentimento, di richiamare attraverso un simulacro il corpo che si è spento insieme con l’amore che aveva incarnato.
Inutile, a questo punto, soffermarsi più di tanto sulla straordinaria prova fornita dai due interpreti, Maria Kraakman e Gijs Scholten van Aschat. Recitano e, contemporaneamente, danno l’impressione di vivere. Tanto, in teatro, accade rarissimamente. E quando accade, è un piccolo, consolante miracolo.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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