Se Gogol’ si perde nella bassa emiliana

Stefano Scandaletti e Silvia Paoli in una scena de «L'ispettore generale»

Stefano Scandaletti e Silvia Paoli in una scena de «L’ispettore generale»

È la passione civile che – ne «L’ispettore generale» (ovvero «Il revisore») di Gogol’ – nutre quella satira amara e spietata di un gruppo di corrotti funzionari di provincia, a tal punto sconvolti dalla notizia dell’imminente arrivo di un controllo dall’alto che scambiano per il famoso ispettore in questione un giovane e innocuo impiegatuccio, Chlestakòv, in viaggio da Pietroburgo verso la tenuta paterna.
Dunque, aveva proprio ragione Vito Pandolfi quando, a proposito de «L’ispettore generale», osservò che «offre un esempio difficilmente superabile di come il teatro possa intervenire nella vita di una Nazione, e motivarsi come suo lievito attivo».
Tanto senza contare l’ugualmente decisiva dimensione metaforica, e addirittura metafisica, a cui accennò il grande Belinskij: il quale – nel collocare (e proprio grazie a «L’ispettore generale») Gogol’ al di sopra di Molière – rilevò che, in quel capolavoro, l’intera azione drammaturgica si muove in funzione «di un fatto illusorio, di un fantasma»; e senza contare la trasposizione sul versante fiabesco del nulla incarnato dall’esistenza ineffettuale di quei burocrati.
È tutto questo, insomma, che fa di Gogol’ un autentico gigante della letteratura universale. Ma sarebbe un’impresa folle tentare di rintracciarlo nell’allestimento de «L’ispettore generale» che gli Stabili del Veneto e dell’Umbria presentano al Bellini per la regia di Damiano Michieletto. Qui – come già in molti allestimenti precedenti di quella commedia, per esempio, guarda un po’, nell’allestimento firmato da Branciaroli e Sciaccaluga e presentato proprio al Bellini nell’anno di grazia 1994 – si punta costantemente e strenuamente sul grottesco e sul comico dichiarati.
In tal modo si rimane ancorati alla pura superficie del testo. E peraltro, la facilità di una simile scelta si accoppia con la contraddizione plateale di quei nomi russi, di quei canti russi e persino delle parate militari sulla Piazza Rossa calati in un’atmosfera (vedi lo squallido bar che prende il posto della casa del sindaco di Gogol’) che sembra, sputata, quella di un qualsiasi sperduto paese della bassa emiliana.
Perché, allora, non agganciare il grottesco e il comico di cui sopra alle mille Tangentopoli nostrane, non limitandosi ad inventare un finale prolisso e ovvio che vede la figlia del sindaco (oddio, il simbolo dell’innocenza!) impacchettare nel cellophane quelle marionette irredimibili?
Piuttosto scolastica, infine, la recitazione degl’interpreti in campo, e attestata su un ritmo blando comune a tutti. Fra i migliori segnalerei Eleonora Panizzo (Màr’ja Antònovna, appunto la figlia del sindaco), Alessandro Albertin (lo stesso sindaco) e Silvia Paoli (Anna Andrèevna, sua moglie).

                                                                                                                                            Enrico Fiore

(«Il Mattino», 6 dicembre 2014)

 

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