Quel busto di Lenin che intossica la cena

Nicola Borghesi in un momento de «Il Capitale», dato all’Arena del Sole
(le foto che illustrano questo articolo sono di Luca Del Pia)

BOLOGNA – Kepler-452, la compagnia bolognese fondata nel 2015 da Nicola Borghesi, Enrico Baraldi e Paola Aiello, è senz’alcun dubbio, in Italia, la vessillifera del teatro politico, nel senso più alto e completo dell’aggettivo: ossia nel senso di una poetica e di una pratica strettamente legate al concetto di comunità. E vale la pena, al riguardo, di ricordare le parole con cui riassume i propri obiettivi: «Il nostro lavoro si incardina su due assi principali: da una parte l’urgenza di rivolgerci ad un pubblico preciso (quello, per intenderci, poco incline a entrare nelle sale teatrali) e dall’altra la scelta di indagare e mettere in scena le vite e le biografie di non professionisti (o “experts of everyday life”, come li definiscono i Rimini Protokoll), magnificandone le identità».
Così, per esempio, nel 2018 Kepler-452 mise in scena uno spettacolo, «Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso», che riattraversava il capolavoro cechoviano sulla traccia della vicenda reale di Annalisa e Giuliano Bianchi, sfrattati dalla casa colonica che il Comune gli aveva concesso per far posto al FICO, il parco a tema agroalimentare più grande del mondo. E adesso, nell’ambito del Vie Festival promosso da Emilia Romagna Teatro, ha presentato all’Arena del Sole di Bologna, in «prima» nazionale, un allestimento, «Il Capitale», che, ovviamente ispirato al celeberrimo libro di Marx, ne rievoca le fondamentali linee teoriche alla luce della vicenda della GKN, una fabbrica di Campi Bisenzio i cui 422 operai ricevettero, il 9 luglio dell’anno scorso, una mail che gli comunicava il loro licenziamento.
Da quel momento, gli operai occuparono la fabbrica, riunendosi in assemblea permanente. E Nicola Borghesi ed Enrico Baraldi, autori del testo e registi, costruirono lo spettacolo entrando nella fabbrica occupata, dormendo su una brandina, intervistando centinaia di quegli operai, partecipando a picchetti e manifestazioni e poi, lo avrete forse immaginato, «assumendo» come «interpreti» principali de «Il Capitale» i componenti del collettivo di fabbrica dei lavoratori della GKN, Tiziana De Biasio, Felice Ieraci e Francesco Iorio.
Attenzione, però: non a caso il sottotitolo dello spettacolo è «Un libro che ancora non abbiamo letto». Infatti, si può ancora leggere, oggi, «Il Capitale» di Marx? E che cosa significa leggerlo oggi? E in che modo si può oggi – come dicono Borghesi e Baraldi – «instaurare un dialogo creativo tra “Il Capitale” e quello che succede al presidio, tra un classico della letteratura filosofica ed economica e un gruppo di esseri umani in carne ed ossa»?
Mi pare che Kepler-452 risponda a quest’ultima domanda con una precisione non disgiunta dalla passione civile e, giusto, politica, per suo conto accoppiata con l’afflato di una sentita partecipazione umana. E dunque, certo, compaiono nello spettacolo scritte sul fondale che fanno tanto cartelli brechtiani (tipo: «Il capitalista dovrebbe avere la fortuna di scoprire, sul mercato, una merce il cui valore d’uso possedesse la peculiare proprietà di essere fonte di valore. E il capitalista trova sul mercato questa merce: la forza lavoro» o «Il mezzo di lavoro si erge di fronte all’operaio come capitale, come lavoro morto che domina e succhia la forza lavoro viva») e risalta la citazione-chiave: «La forma del processo di produzione materiale si spoglia del suo mistico velo di nebbia solo quando, come prodotto di uomini liberamente associati, sia sottoposto al loro controllo cosciente e conforme a un piano»; ma, contemporaneamente, c’imbattiamo, tanto per dirne solo una, nel Francesco Iorio che proclama: «Custodisco il segreto della ricetta del sugo di pecora, che ho ereditato da mio padre».

Tiziana De Biasio in un altro momento dello spettacolo, presentato nell’ambito di Vie Festival

Ecco, ci avviciniamo a quella che è la piccola ma decisiva verità: la fabbrica diventa una propaggine del corpo dell’operaio. Lo stesso Iorio racconta: «La prima volta che sono entrato in una fabbrica mi ricordo benissimo quell’odore, odore chiuso, di morchia, di fabbrica. Un odore che ci mette un secondo ad attaccarsi addosso, e una vita intera ad andare via. Una volta, tornando a casa, mia figlia piccola mi fa: babbo, puzzi di fabbrica».
La conseguenza, s’intende, è che la fabbrica è, in pari tempo, una maledizione e una benedizione, significa sfruttamento ma anche possibiltà di stare insieme con gli altri. Lo spiega chiarissimamente Felice Ieraci: «Sono rimasto orfano. Da quel momento ho sempre cercato una nuova famiglia, e ne ho girate molte. Alcune buone alcune no. […] L’ultima che ho trovato, negli ultimi vent’anni, è quella del mio lavoro, dei miei compagni. La mia fabbrica. Quando entravo la mattina alle sei, quando non ero dell’umore giusto, trovavo sempre qualcuno con cui parlare. Tra un semiasse e l’altro passava il tempo, fino alla prima pausa, andavamo a prendere un caffè e cominciava a uscire il sole. Il mio umore da cupo diventava più armonioso. È un paradosso andare a fare otto ore i pezzi in fabbrica ed essere felice? Forse sì. Ma per me lavorare era un modo di non essere solo. Otto ore al giorno insieme, per vent’anni. Tramite i racconti era come conoscere le vite, le famiglie, i figlioli di tutti, anche se non li avevo mai visti».
Così, dunque, la drammaturgia di Baraldi e Borghesi rende, e come meglio non si sarebbe potuto, l’idea della comunità a cui accennavo all’inizio. E non minore è l’efficacia con cui rende le contraddizioni che scontiamo pur nella sostanziale adesione al pensiero marxista. A proposito de «Il Capitale», dice Borghesi nel prologo: «È un libro che fa paura. […] Il problema è che non lo abbiamo letto. Se lo abbiamo letto, non lo abbiamo capito. Se lo abbiamo capito non sappiamo che fare. Se sappiamo che fare, poi, non riusciamo a farlo».
Fa il paio, questa considerazione, con il racconto che lo stesso Nicola fa di una cena a casa dei genitori: «Sulla loro libreria c’è, come c’è da sempre, un busto di Lenin, piccolo, di gesso. Ho odiato anche loro. Li ho odiati non perché non sono più comunisti, non perché non erano in quella fabbrica. […] Ma perché hanno lasciato qualcosa, qualcosa che ha a che fare con quel busto di Lenin che resta lì, una parte bambina di loro che continua a parlarmi e a inquietarmi e spingermi a cercare qualcosa che hanno perso, che abbiamo perso, qualcosa che non si troverà mai. Qualcosa che si è perso e non ci dà pace».
È troppo se dico che questo passo del testo di Enrico Baraldi e Nicola Borghesi è una delle più lucide e impietose analisi che mai siano risuonate su un palcoscenico circa le contraddizioni e le disillusioni indotte dall’essere stati comunisti ma, comunque, in qualche modo riscattate dalla volontà di continuare ad esserlo? Viene in mente «Qualcuno era comunista» di Giorgio Gaber. E torna, ancora una volta, il ricordo dei versi, che non mi stancherò mai di citare, scritti da Wolf Biermann, lo scomodo poeta e cantautore di Berlino Est che frequentava, insieme, Heine, Brecht e Villon: «Può darsi che mi sbagli / e che ti confonda soltanto. / Può darsi che speri / e che sia perduto da tempo / – ma continuo a rivivere / il sogno della Comune. / Mi ha messo al mondo per questo, mia madre. / Abbiamo tradito noi stessi, / ci siamo venduti e in tutto ingannati / – ma fra tutti i miei sogni, quelli rossi / non sono morti e sepolti / assieme ai nostri morti. / Per facile o difficile che sia o che sarà / proseguo la nostra strada, / con rabbia e nostalgia / – può darsi che un giorno / sarà tutto raggiunto. / E non avrò raggiunto / che un nuovo inizio daccapo».

Ancora una scena de «Il Capitale», con Felice Ieraci

Ma debbo aggiungere che parliamo di uno spettacolo che è anche attraversato da una salutare ironia demitizzante. Dice ancora Nicola: «Ora ogni volta che vado alla GKN mi fisso su una cosa in particolare: i portacarta asciugamani dei bagni. Mi immagino sempre che quando tutto starà per finire me ne accorgerò perché mancherà la carta. Al presidio GKN i cessi sono incredibilmente puliti, una cosa sorprendente per essere i cessi di una fabbrica occupata quasi solo da operai metalmeccanici maschi. Cessi della GKN, profumo di socialismo».
Peraltro Nicola è quello che poi dirà: «A un certo punto me ne sono andato dal presidio per qualche giorno e sono tornato a Bologna, a casa mia. Ho fatto quello che faccio sempre: ho visto i miei amici, la mia ragazza, i miei genitori, le persone per strada. Noi. Li odiavo. Non avevano fatto nulla. Semplicemente non erano stati lì. […] Guardavo le facce di tutti quelli che incrociavo per strada e avrei voluto spaccare la faccia a ogni singola persona perché non era lì, alla GKN, se solo non fossi una mezza sega che non ha mai fatto a botte in vita sua». E aggiunge, ciò che non avremmo mai previsto: «Odiavo noi teatranti che in questi anni ci siamo occupati di moda, di glamour, di grandi apparati, delle performance, che cazzo performiamo». E conclude: «E più di tutti odio me stesso che in una fabbrica ci sono finito solo per farci uno spettacolo».
Si sarebbe potuto dar luogo a un più feroce attacco contro il teatro dell’intrattenimento, della menzogna e dell’ipocrisia? In questo, allora, consiste il valore non comune dello spettacolo di Kepler-452. Dice verso la fine Dario Salvetti, il quinto degli «interpreti» in campo: «Non è facile stabilire che cos’è una vittoria e che cos’è una sconfitta. Tanto più che dovremmo forse liberarci del concetto di vittoria. L’unica sconfitta sarebbe uscire da questa lotta con un’analisi sbagliata. La vittoria non è non fare errori, ma nel farne di nuovi. E chiamare gli errori errori e le cadute cadute. Magari perdere la lotta, ma mai la dignità, Per tramandare qualcosa agli altri, come altri l’hanno tramandata a noi».
Le ultime parole sono queste: «Scegliamoci dei buoni compagni di vita e di lotta, proviamo a non vivere invano e a non morire soli».
A me è toccato in sorte di averlo avuto, qualcuno di quei «buoni compagni»: primo fra tutti Michalis Lilis, editore e giornalista di Atene, che morì in esilio, dieci minuti prima di arrivare a Patrasso, sul traghetto che lo riportava nella Grecia finalmente libera dai colonnelli. Ma io so che Michalis è sempre vivo, e sempre lo rivedo. L’ho rivisto anche ieri sera.
Gli operai della GKN continuano ad occupare la fabbrica. E ieri sera sono arrivati in corteo all’Arena del Sole e sono entrati in teatro coi loro tamburi, i loro bambini e le magliette con la scritta «Insorgiamo», che era il grido di battaglia della Resistenza fiorentina. E hanno continuamente interagito con gl’«interpreti». E alla fine – insieme, con i pugni chiusi levati in alto – gl’«interpreti» e quegli insoliti «spettatori» hanno cantato la canzone composta dagli stessi operai della GKN: «Occupiamola / fino a che ce ne sarà / che fatica che ti chiedoooo / oggi devi sciopera’. / E avanti insieme / uniti a lottare / tutta la settimana / la passo qui con te. / E non c’è resa non c’è rassegnazione / ma solo tanta rabbia / che cresce dentro me».
Cantava con loro anche Michalis.

Enrico Fiore

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