L’impossibilità di cadere fuori dalla Parola

Elena Bucci e Marco Sgrosso in un momento di «Caduto fuori dal tempo»
(le foto che illustrano questo articolo sono di Marco Caselli Nirmal)

BOLOGNA – Quanti fili mi si riannodano nella testa e nel cuore in questa mia stagione avanzata! Cerco di non pensarci. Ma come potevo non pensarci mentre a Bologna, la città che fu l’ultima patria di Leo de Berardinis, vedevo nella sala a lui intitolata dell’Arena del Sole uno spettacolo ideato e interpretato da due dei suoi migliori e più fedeli attori, Elena Bucci e Marco Sgrosso? E come potevo non pensarci se, per giunta, quello spettacolo mi rimandava ad Enzo Moscato, che con Leo stabilì un sodalizio artistico di valore assoluto?
Parlo del Moscato autore della «Quadrilogia di Santarcangelo». La pubblicò nel 1999 la Ubulibri del caro, indimenticabile Franco Quadri, con una dedica ad Enzo di Leo e la mia introduzione. E comprendeva i testi («Mal-d’-Hamlé», «Recidiva», «Lingua, Carne, Soffio», «Aquarium Ardent») presentati per l’appunto a Santarcangelo durante il periodo in cui Leo ne diresse il Festival.
Ebbene, ci sono fra quei testi e lo spettacolo di Elena Bucci e Marco Sgrosso delle coincidenze addirittura impressionanti sotto il profilo dei temi profondi messi sul tappeto.
Lo spettacolo, «Caduto fuori dal tempo», è un adattamento, firmato dagli stessi Bucci e Sgrosso, dell’omonimo romanzo dell’israeliano David Grossman, scritto quattro anni dopo la perdita del suo secondogenito, Uri, ucciso nel 2006 da un missile anticarro mentr’era in missione in Libano. E qui di seguito ne riassumo brevissimamente la trama.
Una sera, in una contrada immaginaria, un uomo e sua moglie siedono a cena. Cinque anni prima gli è morto un figlio. E all’improvviso l’uomo si alza, dice che deve andare «laggiù», ossia dove il mondo dei vivi confina con quello dei morti. La donna, no, non lo segue, dice che «non c’è un laggiù». E l’uomo, dopo aver ribattuto che «se ci si va, un laggiù c’è», si mette in cammino da solo. E lungo il cammino incontra, insieme con generici viandanti, personaggi straordinariamente emblematici: il Duca signore di quella contrada, lo Scriba delle Cronache Cittadine (un ex giullare incaricato dal Duca di prendere nota delle storie dei suoi sudditi che hanno perso i figli), un Ciabattino, la Levatrice moglie di quest’ultimo, una Riparatrice di Reti da Pesca, un Maestro di Aritmetica che scrive sui muri delle case file di numeri ed esercizi e – last but not least – un Centauro la cui parte inferiore del corpo è una scrivania.
Ma ci si accorge molto facilmente che lo Scriba delle Cronache Cittadine è lo stesso Grossman e che tutti gli altri personaggi non sono che sue proiezioni. Infatti, a proposito del Centauro, a un certo punto lo Scriba osserva: «[…] non posso proibire a Centauro di piangere. È una faccenda sua, privata, anche se, chissà perché, insiste a piangere con la mia voce». E allora – poiché Centauro ha la parte inferiore del corpo costituita da una scrivania, ciò che, ovviamente, significa che è condannato a scrivere – si capisce che il vero e vertiginoso problema posto al centro di «Caduto fuori dal tempo» s’identifica con quello della Parola.
Grossman sa bene che le parole sono, rispetto alla realtà, impotenti e menzognere. Ma sa altrettanto bene che ne abbiamo un bisogno imprescindibile, perché solo con le parole possiamo chiamare e, quindi, far esistere le cose. Dice il Vangelo secondo Giovanni: «In principio il Verbo / il Verbo intento a Dio, / il Verbo-Dio. / Era lui in principio intento a Dio. / Mediante lui avvenne tutto, / nulla di nulla senza di lui!» (1, 1-3). Infatti, l’ebraismo ritiene che il nome di Dio non si possa né pronunciare né scrivere, giacché, per l’appunto, Dio è prima delle cose. Il nome Jahweh lo si sostituisce nella scrittura con il tetragramma JHWH e nella quotidianità con un’irriducibile tautologia: Ha-Shem, che in ebraico significa solo «Il Nome».

Da sinistra, Elena Bucci, Simone Zanchini e Marco Sgrosso in un altro momento dello spettacolo

Dunque, è in un ossimoro che si traduce, e non poteva essere diversamente, l’elaborazione del lutto per la morte del figlio che spasima in «Caduto fuori dal tempo». Il romanzo comincia con l’uomo che dice: «Forse laggiù potrò vedere. Persino parlare con lui» e la moglie che dice dubbiosa: «Parlare?», prosegue con la moglie che incalza: «[…] che hanno a che fare le parole… che ha a che fare la grancassa delle parole con la sua morte?!», si esalta con il Centauro che dichiara: «Non riesco a capire qualcosa finché non la scrivo», fa marcia indietro con i viandanti che gridano: «Che venga il fuoco, che bruci le parole maledette, […] soffochiamo per il fumo delle parole, nella fornace delle parole» e si conclude con il Centauro che prima constata: «Tutta la mia vita ora, tutta la mia vita sulla punta di questa penna» e poi osserva: «È solo che il cuore mi si spezza, tesoro mio, al pensiero che io… abbia potuto… trovare per tutto questo parole». E che dire, poi, della sublime ironia straniante incarnata da quella Levatrice che balbetta, che, cioè, stenta a far nascere le parole?
Eccolo, il collegamento con la «Quadrilogia di Santarcangelo» di Moscato. In «Mal-d’-Hamlé» esplode una sintesi disperata ed eroica insieme dell’ossimoro che s’accampa nel romanzo di Grossman: «Niente cchiù parole. Pas de mots! / No, no, ati, ate! Altre, sempre! / Sempe cchiù parole, voglio! / Words, words, words, a mmuorze, a mmuorze, a mmuorze!». E inoltre, Moscato c’entra, e non poco, anche per quanto riguarda il «laggiù», il «luogo» in cui il mondo dei vivi confina con quello dei morti.
In un altro suo testo, «Co’Stell’Azioni», s’immagina che, nella magica notte di fine d’anno, i Morti vengano tra i Vivi: «[…] per farvi sapitori ‘e sta ferita, / per chiedervene scusa, / scusa e perdono di una differenza, / dello stare nel diverso di un altrove». Ed è la ferita che, alla fine, viene «razionalizzata» in «Caduto fuori dal tempo», quando la moglie dello Scriba dice: «[…] ora, per la prima volta non solo conosco il sapore della morte, ma so anche cos’è la vita, e ancora di più vedo…» e lo Scriba le fa eco: «… come la vita e la morte l’una di fronte all’altra tubano l’una con l’altra, si toccano e s’intrecciano l’una con l’altra fino alla radice della loro nudità, rimescolano e riversano senza sosta, dall’una all’altra, dall’altra all’una, come una coppia di amanti, la linfa del loro essere». È la ferita che la moglie dello Scriba accetta come salvifica quando aggiunge, rivolta alla figlia che ha perduto: «[…] non sapevo, non fino a tal punto, che la vita, nella sua pienezza, è presente solo lì, su quella linea di confine… Ed è come se non avessi mai vissuto, come se nulla di tutto ciò che mi è accaduto fosse stato veramente, fino a che tu, fino a che sei morta…».
Non altro dice, per suo conto, Elena Bucci quando in una nota all’adattamento del romanzo di Grossman osserva che lo scrittore israeliano «attraverso la scrittura trasforma il suo dolore personale in parola poetica e universale che cura e consola, permettendoci di intravvedere, nel nostro mondo colorato e rumoroso, la sua dimensione intima e silente, visionaria, dove si può accettare l’assenza e compiere il rito del saluto che permette di tornare a vivere».
Mi rifiuto di assimilare queste parole alle famigerate «note di regia» che servono soltanto ad esibire il narcisismo dei teatranti. Sono un’altra cosa, una cosa rarissima e preziosa. Rimandano, e così il cerchio si chiude perfettamente, alla dedica che in apertura della «Quadrilogia di Santarcangelo» Leo de Berardinis scrisse per Enzo Moscato: «Il desiderio del tuo fragile corpo d’attore è il desiderio di una canzone nuova, di un canto nuovo, spremuto dalle macerie, dal dolore e dal sorriso; un desiderio che è oltre ciò che avviene sulla scena, è intorno al tuo corpo, è in quei momenti in cui fai in modo che anche gli altri, gli spettatori, si pongano in ascolto in prossimità del silenzio».

Ancora una scena di «Caduto fuori dal tempo», con Marco Sgrosso ed Elena Bucci

La messinscena è lo specchio fedelissimo di tutto questo, a partire dai piccoli sipari interni che aprono qua e là finestre tali da determinare effetti da dissolvenza incrociata e, insieme, da costituire l’equivalente visivo delle cadute e degli slanci compresi nell’ossimoro che ho illustrato. E bravissimi sono Elena Bucci (anche nel ruolo di regista) e Marco Sgrosso, assistiti al meglio dalle musiche eseguite dal vivo dal fisarmonicista Simone Zanchini. Recitano senza recitare. E così rimandano di nuovo ad Enzo Moscato, alla definizione della scrittura che lui dà in una nota d’introduzione a «Lingua, carne, soffio»: «sabbia, sabbia mobile, su cui scrivere, di continuo, parole di continuo cancellate».
Mi fermo qui. Non ho scritto una recensione (ma, in fondo, di recensioni, di quelle in sé concluse, non ne ho mai scritte, non siamo a scuola per dare voti a compiti in classe). Ho cercato, invece, di dar conto di uno spettacolo ch’è stato capace di fondere i suoi contenuti con un poco della mia vita, un poco dei miei studi e un poco dell’affetto che ho provato per alcuni compagni di strada.
Non accade quasi mai. E mentre tornavo in albergo, ripensando a quello spettacolo – all’ossimoro che vi deflagra, tra la vita ch’è anche morte e la morte ch’è anche vita – sono riandato ancora una volta a Yannis Ritsos, il comunista e poeta che, reduce dagli arresti e dai campi di concentramento, incontrai ad Atene nel buio dei colonnelli. Poi la figlia Elefteria, chiamata familiarmente Eri, mi diede senza pretendere una sola lira i diritti sull’intera opera del padre, e trassi dai suoi poemi e corali il testo «Le vecchie e il mare» che, fra l’altro, chiuse la Biennale Teatro nel 2009.
Di Yannis, in particolare, m’è tornata in mente l’ultima raccolta, «Molto tardi nella notte», pubblicata postuma. Sono i versi del disincanto, dell’amarezza, della malinconia per la fine che si avvicina. E tuttavia c’è una poesia, «Il poeta», che dice: «Per quanto si bagni la mano nell’oscuro, / la mano non si annerisce mai. La sua mano / è impermeabile alla notte. Quando se ne andrà / (perché un giorno tutti ce ne andiamo), credo che resterà / un sorriso dolcissimo in questo mondo / che dirà incessantemente “sì” e ancora “sì” / a tutte le secolari speranze vanificate».

Enrico Fiore

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