Adesso per Cleopatràs l’aspide è la siringa di un’overdose

In questa e nelle altre due foto che illustrano l'articolo Anna Della Rosa in tre momenti dell'allestimento di «Cleopatràs» di Testori  che ha aperto la stagione dello Storchi per la regia di Valter Malosti (tutte le foto sono di Tommaso Le Pera)

In questa e nelle altre due foto che illustrano l’articolo Anna Della Rosa in tre momenti
dell’allestimento di «Cleopatràs» di Testori che ha aperto la stagione dello Storchi per la regia di Valter Malosti
(tutte le foto sono di Tommaso Le Pera)

MODENA – «Che me se porti almen / dall’obitorio / dell’Erba e dell’Incino, / ecco, / un zuffetto / dei nigri, tutti rizzuti / e untati de gel / cavelli suoi o cavellàs! / Et uno anca del boschetto / ovver stormentissima / foresta de castagni / ch’el gh’aveva, / qui, / in del suo divino puberàs! / Prima, / a coté del mio nasàs / io vo’ portarli / per sentir ammò il parfumo / de tutte le colonie / e coloniàs / ch’era solito mettàs / e, in un con quelle, / el savor / del battagliesco suo sudor / e quello / tutto de spighe et oro / dell’ultime gotte / del di lui pissar».
È un passo di «Cleopatràs», lo straordinario monologo di Giovanni Testori tornato in scena, ad aprire la stagione dello Storchi, per la regia di Valter Malosti, il nuovo direttore di Emilia Romagna Teatro. E anche perché collocato in posizione fortemente icastica, all’inizio del testo (e perché, dunque, svolge la funzione di una sorta di prologo o di annuncio), risulta particolarmente emblematico in rapporto ai contenuti e alle modalità espressive qui messi in campo.
«Cleopatràs», come sappiamo, è – precedendo «Erodiàs» e «Mater Strangosciàs», dedicati rispettivamente a Erodiade e alla Madonna – il primo dei «Tre lai» di Testori: ovvero dei monologhi, appunto, che costituiscono indubbiamente l’autentico testamento dell’autore lombardo. E in essi, scritti da Testori nella sua stanza d’ospedale, durante gli ultimi giorni di vita, la poesia – come accade ne «La tempesta» shakespeariana – nasce proprio dal fatto che sta per spegnersi.
«Come fatigo mo’ / a far la rima! / Anch’essa lei la povesia / mo’ mo’ in me / se smorza». Questa la conseguente battuta decisiva di «Cleopatràs». E risulta dichiarato, quindi, l’identificarsi di Testori con l’infelice regina d’Egitto. Mentre l’ossimoro così esibito (la poesia che nasce nel momento in cui muore) si traduce anche nel sentimento e nell’atteggiamento che distinguono Testori rispetto a Prospero e, quindi, ne connotano potentemente la scrittura: una disperata allegria e un’orgogliosa – e addirittura eroica – autoironia.
In altri termini, è sulla sottolineatura per contrasto che si fonda l’alta qualità stilistica e drammaturgica dei «Tre lai»: a cominciare dalla circostanza per la quale i personaggi che ne sono protagonisti danno luogo a una lamentazione su un corpo morto che si trasforma, irriducibilmente, in uno strenuo inno alla vita e alla corporeità in cui essa s’incarna al grado estremo, e cioè quotidiano, della sua verità. E tanto risulta particolarmente evidente per l’appunto in «Cleopatràs».
Cleopatras foto di Tommaso Le Pera (2)Basta considerare, giusto, l’attacco citato, in cui, come s’è visto, di Antonio, del suo «gran Tuniàs», Cleopatràs rimpiange soprattutto i capelli, i peli pubici e gli odori, del sudore e dell’orina compresi. In breve, nella dimensione del transito, ossia del passaggio dalla vita alla morte, l’unica certezza è, per lei, proprio quella rappresentata dal corpo. Da un corpo evocato che, naturalmente, si manifesta soprattutto come struggente nostalgia del sesso.
Vedi, in proposito, il passo seguente: «Eran le oregge / del mio gran Tuniàs / come le persiche / al sole dell’Egitto / e anca su del Crez / fatte seccare e reseccar, / ch’io sempre le mangiava / al pranzo de Natal. / E cosa mai provavo – oh, dame / e qui presenti damerini – / quando di dalle oregge / con leopardico furar / al centro mi portavo / e i buchi due del nas / io de la mia saliva / bagnava e rebagnàs / et anca / del gran organo olfattivo / la punta, ovver puntàs, / a un’altra parallela / et similàs; / quest’altra al ver più invumidenta / et morbidàs, / al men finché el leonico tirar / dura ‘me zinco / non la faseva doventar».
Su questa strada, come è facile immaginare, ben presto la nostalgia del sesso si trasforma, nientemeno, in un delirio cannibalico: «Detto non è / che presa d’angosciàs / non me decida / de subbeto dervir / la mia tigrica boccàs / e quel zuffetto, / anzo, quei due zuffetti due / sugli egizzichi labbri / portar et / de giù destrangugiàr».
Ma infine, tutto – la disperata allegria, l’orgogliosa ed eroica autoironia, la nostalgia del sesso, il delirio cannibalico – precipita e annega in una presa di coscienza della vanità esistenziale che, a metà fra l’Ecclesiaste e Céline, costituisce un grido di dolore fra i più alti che mai abbiano spasimato su un palcoscenico: «E te, / scrivan, / respondi: / dell’immana che fui io me Cleopatràs, / qui, in del magno teatro / e in sulla terra intrega, / cosa de mai ce resteràs? / Nigotta? / Nigottàs? / E ‘lora / ciàppela in del cü / sì, propi in del cü / porca vitàs, / et anca ti, o Diù, / che in essa me mettàs! / Est isto, / est isto insolamento / il mio finalo / e mortuario testamento! / E che de Crez / vegna giù i scurbat, / i muster / e de l’lnferna tütta la gran gent, / no ‘sto fil d’aria / che l’è gnanca vent…».
Cleopatras foto di Tommaso Le Pera (1)Ebbene, Valter Malosti illustra tutto questo con una serie d’invenzioni tanto ardite quanto fondate. A cominciare dal fatto che qui – per l’appunto nel solco della vaneggiante glorificazione del corpo praticata dall’autore – il ragazzino che porta a Cleopatra il «fatal cestino» non è la sagoma di lamiera «culurada» che compare in Testori, ma un ragazzino in carne ed ossa. E a ribadire e ad amplificare l’abbassamento di tono in cui Testori cala il «glamour» della celebre e celebrata regina, quel ragazzino (è un «innocente» Aron Tewelde) non ha più niente del «clown» sboccato e vagamente demoniaco che compariva in Shakespeare: è un ragazzino qualunque, buono solo a suscitare in Cleopatra gli ultimi brividi di sensualità e a darle modo di abbandonarsi con lui a danze e pantomime svagate.
Allo stesso modo, la scena di Nicolas Bovey è quanto di più diverso da una reggia si possa immaginare: allude progressivamente a uno studio televisivo e a una tomba prima di diventare in concreto un’anonima stanza d’albergo; e risulta del tutto inutile sottolineare, in riferimento alla dimensione del transito scontata da Cleopatràs, che una stanza d’albergo è il luogo di passaggio per eccellenza.
Qui, poi, diventa per di più il luogo dell’estrema fra le invenzioni di Malosti: deposto il sontuoso manto regale, Cleopatràs vi compare indossando una disadorna sottoveste, e per lei, su quel letto disfatto, l’aspide si trasforma nella siringa che le inietta un’overdose.
Adesso, per chiudere, dovrei parlare di Anna Della Rosa. E dico dovrei perché mi riesce davvero difficile. La sua è una delle più intense e folgoranti prove d’attrice a cui mi sia capitato di assistere. E non si tratta solo di tecnica. Non si tratta solo, cioè, della sicurezza con cui rende l’incredibile lingua di Testori (lingua incredibile perché inventata, mescolìo di dialetti padani, latinismi, francesismi, venetismi e semplici «rumori»), ma anche e soprattutto del temperamento, il temperamento che Anna possiede come pochissime delle altre attrici italiane di oggi e che, nella circostanza, le consente di ritrovare – proprio attraverso quella lingua insieme antica e nuovissima, solenne e infantile, sacrale e blasfema – il significante dell’anarchica e intrepida «follia» dell’esistenza.
Guardatela, con il microfono in mano dall’inizio alla fine. Recita, certo. Perché – ormai spoglia d’ogni orpello di potere e di gloria – Cleopatràs s’è ridotta ad essere nient’altro che un’attrice. Ma è un’attrice che, per l’appunto, ha bisogno di un supporto tecnico per poter esprimersi: giacché solo recitando a un livello «basso» (arriva persino alla ribalderia di evocare il membro dritto di Antonio appoggiandosi sul pube la bottiglia da cui sta bevendo a canna!) può pronunciare la verità più segreta.
Allora, non riusciremo a dimenticare facilmente quel finale. Anna Della Rosa dice le ultime parole protesa dal letto disfatto verso la luce che entra dal balcone come un insulto. E risentiamo nella sua voce l’eco della vita che sentì Testori: la «porca, dolcissima, durissima, infingarda, ladra e divina vita».

                                                                                                                                       Enrico Fiore

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