Quella Misery che fa di Annie una proiezione di Paul

Arianna Scommegna e Filippo Dini in un momento di «Misery», in scena al Teatro Due (le foto che illustrano questo articolo sono di Alice Pavesi)

Arianna Scommegna e Filippo Dini in un momento di «Misery», in scena al Teatro Due
(le foto che illustrano questo articolo sono di Alice Pavesi)

PARMA – «Annie è unica, come nessun altro su questo o su altri pianeti». Così viene definita Annie Wilkes nella didascalia iniziale di «Misery», il testo teatrale che William Goldman trasse dalla propria sceneggiatura del film «Misery non deve morire», diretto nel 1990 da Rob Reiner e tratto a sua volta dal romanzo di Stephen King, appunto «Misery», datato 1987. E credo che giusto a quella definizione si sia rifatto Filippo Dini, regista dell’allestimento del testo di Goldman presentato dal Teatro Due in «prima» nazionale.
Conosciamo la storia. Lo scrittore Paul Sheldon, diventato celebre con una serie di romanzi centrati sul personaggio di Misery Chastain, rimane gravemente ferito in un incidente automobilistico durante una tempesta invernale. E a salvarlo è una sua sfegatata ammiratrice, la sua «fan numero uno»: un’ex infermiera professionista, la Annie Wilkes di cui sopra, che lo ospita in casa e prende a curarlo. Ma quando scopre che nell’ultimo romanzo della serie, «Il bambino di Misery», Sheldon ha fatto morire l’eroina per la quale lei stravede, Annie comincia a torturare lo scrittore – fino a fratturargli entrambe le caviglie con un martello – per costringerlo a riportare in vita Misery con un nuovo libro.
Alla fine, sappiamo anche questo, Sheldon ucciderà Annie. Ma nello spettacolo diretto da Dini la trama conta solo fino a un certo punto. E che cosa conti veramente e soprattutto ce lo indicano come meglio non si sarebbe potuto i due passi seguenti delle note di regia: «Mentre tenta disperatamente di organizzare una fuga, Paul affronta faccia a faccia, come mai lo ha affrontato nella vita, il suo demone, incarnato da Annie. Il demone che accompagna la vita di ogni artista: il demone tirannico e folle della creazione, che tutto ci dona e che in cambio vuole la nostra vita. Che non tace nelle ore più buie della notte. Che vuole esistere. Ad ogni costo»; e poi: «Annie non è folle, Annie ama alla follia. Annie è l’esasperazione del desiderio e dell’amore per l’arte, di quella silenziosa e segreta preghiera che ognuno di noi innalza nel proprio cuore ogni volta che voltiamo la prima pagina dell’ultimo romanzo del nostro scrittore preferito. O che sediamo in platea, le luci si spengono e inizia lo spettacolo».
In breve, l’idea principale messa in campo da Dini – un’idea eccellente – è che Paul Sheldon e Annie Wilkes coincidono, nel senso che Annie non è che un «doppio» di Paul: o, meglio, la proiezione del suo essere scrittore (il dato interiore) sullo schermo del rapporto che s’instaura fra l’opera d’arte e chi ne fruisce (il dato esteriore).
Del resto, ad avallare la lettura di Dini provvede un’inequivocabile battuta di Annie, che, dunque, è l’autentica battuta-chiave: «Io ti avrò salvato dalla macchina, Paul, ma per tutti questi anni sei stato tu a salvare me». E ne conseguono due circostanze determinanti: Goldman cancella l’accenno al passato di serial killer della Wilkes, che compariva sia nel romanzo che nel film, in maniera da staccare il personaggio dalla dimensione reale e, per l’appunto, da imprigionarlo in quella mentale; e il finale non si svolge più come nel film, con Sheldon che sta a cena in un ristorante con la sua agente e vede il volto di Annie persino nella cameriera, ma su un palcoscenico, con Sheldon che, nel presentare il libro appena pubblicato, «Il ritorno di Misery», dichiara: «L’ho scritto per una donna che credeva nei miei personaggi più di quanto ci credessi io, e che mi imponeva di essere gentile con loro. Lei doveva sapere cosa sarebbe successo nella storia, e con mia sorpresa ho scoperto che anch’io dovevo saperlo».

Arianna Scommegna e Filippo Dini in un altro momento dello spettacolo, diretto dallo stesso Dini

Arianna Scommegna e Filippo Dini in un altro momento dello spettacolo, diretto dallo stesso Dini

Questa seconda circostanza è particolarmente importante: non solo perché, svolgendosi quel finale nell’ambito del teatro, che conosce solo l’opzione del presente, ribadisce l’identificazione qui e ora di Paul con Annie, ma anche e soprattutto perché, essendo il palcoscenico il regno del simbolo e della fantasia, ci collega al finale del romanzo di King, in cui Sheldon vede a Manhattan un ragazzino con una puzzola in gabbia e prende a immaginare la storia di quel ragazzino e di quella puzzola, riflettendo, nello stesso tempo, su come potrebbe metterla in un suo scritto.
Insomma, la capacità di accedere alla creazione artistica è stata conservata a Paul proprio dall’esplodere della pulsione omicida di Annie Wilkes. Che è giusto quanto sostiene Dini nei passi delle sue note di regia citati.
Venendo ora allo spettacolo in sé, osservo subito che tra le sue componenti (a cominciare dall’agile e persino divertita traduzione di Francesco Bianchi) si determina una coerenza esemplare. Vedi, poniamo, l’impianto scenografico di Laura Benzi: vi campeggia, al centro, una struttura che galleggia nel vuoto e che innanzitutto mostra la stanza in cui è segregato Paul, sghemba come la stanza di Van Gogh ad Arles; e quando si tratta di mostrare gli altri ambienti della casa, quella struttura ruota su se stessa, perché, s’intende, rappresenta l’isola della mente e di questa ribadisce, per l’ennesima volta, l’autosufficienza rispetto al mondo.
Infine, e davvero non è l’ultimo merito di questo spettacolo, annoto che – rispetto al film di Reiner, una «full immersion» nell’horror e nello splatter che più horror e splatter non potevano essere – si verifica qui uno sbocco frequente nell’umorismo, e talvolta nella comicità tout court: giacché, ripeto, non c’è interazione fra la mente e la realtà; agisce solo la mente che dialoga e si scontra con se stessa, e che perciò, a lungo andare, finisce per annoiarsi e, dunque, per non poter prendersi più sul serio.
Al riguardo, basta fare l’esempio della tregenda di grugniti registrati e amplificati in cui sfocia l’iperbolica tirata di Annie sulla scrofa che lei ha chiamato Misery. E chiudo rilevando l’ottima e funzionalissima prova degl’interpreti: lo stesso Filippo Dini, che dona a Paul l’aplomb sornione di chi sa che sta accadendo quel che lui ha voluto, e Arianna Scommegna, che con grande sapienza rende l’oscillare di Annie fra la grigia quotidianità di una casalinga qualsiasi, persino un po’ tonta, e gli scarti improvvisi nella follia che le è stata imposta. Completa il quadro il preciso bozzetto che Carlo Orlando disegna dello sceriffo Buster. E molti e calorosi sono gli applausi al termine.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *