Il Festival di Concetta, ovvero l’autarchia formato-famiglia

Castel Sant'Elmo, la remota «cittadella» del Napoli Teatro Festival Italia 2015

Castel Sant’Elmo, la remota «cittadella» del Napoli Teatro Festival Italia 2015

Ricordate il commento sul cartellone dell’ottava edizione del Napoli Teatro Festival Italia che feci a caldo, il 12 aprile, subito dopo la conferenza stampa romana indetta per annunciarlo? Scrissi che non potevo che constatarne la debolezza pressoché assoluta, tale, comunque, da rappresentare la cartina di tornasole dell’assenza al livello cittadino e regionale di qualsivoglia progetto culturale degno del nome.
Ebbene, debbo dire, adesso che la rassegna si è conclusa, che quel giudizio era assolutamente fondato. Intendiamoci, però: il problema non sono gli spettacoli ospitati dal Festival, ma è il Festival stesso. A che cosa serve? Quali sono (se ci sono) le sue linee guida? Che cosa lascia in termini di crescita culturale e di ricaduta produttiva e occupazionale? Quale rapporto stabilisce col territorio e, in particolare, con la città di Napoli? Quali prospettive individua per il futuro?

Christoph Gawenda in  «Un nemico del popolo»

Christoph Gawenda in «Un nemico del popolo»

Molte altre domande si porrebbero. Ma limitiamoci a queste. E la risposta alle stesse viene proprio dagli spettacoli che ci sono stati offerti, o almeno viene a me dai quattordici spettacoli che ho visto e regolarmente (intendo uno per uno) recensito: «Sudori freddi», «Crave», «Bianco su bianco», «La bottega del caffè», «Un nemico del popolo», «Afrodita y el juicio de Paris», «Il bugiardo», «Malacqua», «Villa Rhabani», «Miss Julia», «Euridice e Orfeo», «L.I. / Lingua Imperii», «Dinamo» e «Sonata per il commissario Ricciardi».
Erano tra i più «accorsati», se non altro sulla carta. E in effetti della metà di essi («Sudori freddi», «Bianco su bianco», «Un nemico del popolo», «Miss Julia», «Euridice e Orfeo», «L.I. / Lingua Imperii» e «Sonata per il commissario Ricciardi») ho parlato bene, e in qualche caso («Un nemico del popolo» e «L.I. / Lingua Imperii») in maniera addirittura entusiastica. Ma sta di fatto che, se non li si considera in sé, proprio alcuni degli spettacoli che ho recensito positivamente prestano il fianco, sul piano della strategia culturale, a perplessità non scarse e non trascurabili.
La principale riguarda il sentore di vecchio che emanano, soprattutto in termini di rapporti col qui e ora, ovvero con la storia o, almeno, con la tempestività della proposta, che dovrebb’essere il requisito decisivo di ogni Festival che si rispetti. Tanto per dire, in «Sudori freddi» Giancarlo Sepe ha ripreso pari pari gli stilemi narrativi e figurativi che

Goos Meeuwsen ed Helena Bittencourt in «Bianco su bianco» (foto di Viviana Cangialosi)

Goos Meeuwsen ed Helena Bittencourt in «Bianco su bianco» (foto di Viviana Cangialosi)

aveva adottato in «Macbeth» la bellezza di trentacinque anni fa; «Bianco su bianco» si affida a contenuti e forme che ormai son diventati maniera; e «Un nemico del popolo» è uno spettacolo che ha sulle spalle una vita già lunga, e scandita dai precedenti passaggi in parecchi Festival (per esempio in quello della Biennale di Venezia nell’agosto del 2013).
Meglio tardi che mai, si dirà. Ma un Festival che si rispetti dev’essere una vetrina, come, poniamo, quella di un negozio di abbigliamento. E nella vetrina di un negozio di abbigliamento si mettono i nuovi modelli, non certo i capi degli anni scorsi ripescati dal magazzino. Altrimenti – mentre non si aggiorna e non si affina il gusto del pubblico – ci si nega a qualsiasi conoscenza circa il lavoro che i più sensibili e attrezzati operatori del settore vanno compiendo per adeguare il teatro alle istanze della società e ai bisogni intellettuali dei cittadini.

Raina Kabaivanska in «Villa Rhabani»

Raina Kabaivanska in «Villa Rhabani»

Questo per non parlare degli autentici disastri costituiti da spettacoli come «Villa Rhabani», della banalità e del già visto disseminati a piene mani in «Crave», dei quintali di polvere che pesano sull’allestimento de «La bottega del caffè» firmato da Scaparro, del rachitico compitino in classe che con «Afrodita y el juicio de Paris» la Fura dels Baus ha steso rispetto al Cirque du Soleil e al Cirque Éloize, delle cervellotiche trovate che Arias ha scaricato sul groppone de «Il bugiardo», dell’inconsistenza drammaturgica rivelata dal trasferimento sul palcoscenico di un romanzo carico di letterarietà come «Malacqua» e, infine, della copia conforme che con «Dinamo» l’argentino Tolcachir ci ha propinato di «La omisión de la familia Coleman», il suo spettacolo presentato nel corso del Napoli Teatro Festival Italia del 2012.
Vengono in mente, specie a proposito dello spettacolo della Fura dels Baus, con assoluto provincialismo annunciato a gran voce dagli organizzatori del Festival (e dai loro fiancheggiatori annidati in giornali e televisioni) come un evento strepitoso, i versi sarcastici riproposti dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare ne «Il Mattacino», che – lo ricordo a mo’ di codicillo allusivo – era una danza funeraria rituale del XVII secolo che veniva eseguita a Napoli in periodi di pestilenza e di epidemie come esorcismo contro la morte: «Ih quant’è bella Napule, pare ‘nu franfellicco, / ognuno vene, allicca, arronza e se ne va!».

Il cavallo «modello Kantor» della Fura dels Baus

Il cavallo «modello Kantor» della Fura dels Baus

Con il provincialismo, poi, s’è accoppiata un’altrettanto smodata propensione all’autarchia. Mai come quest’anno sono stati numerosi i teatranti napoletani invitati al Festival. E insomma, si è messa la proverbiale polpetta in bocca a quanti più autori e registi e attori nostrani era possibile. A prescindere da quel che proponevano: a me, per esempio, è stato raccomandato il testo di un autore napoletano di oggi che crede di essere uno dei (presunti) eredi di Eduardo De Filippo; ma, dopo averlo letto, ho deciso immediatamente di non andare a vedere il suo allestimento. E sono convinto, in tutta franchezza, di non essermi perso un capolavoro.
Comunque, i teatranti napoletani, che certo non brillano, in genere, per il coraggio e la voglia di cambiare le cose che non vanno, sono stati ben contenti di acconciarsi alle scelte campanilistico-ecumeniche del Festival, riuscendo a soddisfare, in un colpo solo, da un lato lo stomaco e dall’altro quel narcisismo per cui si fanno persuasi che ogni loro spettacolo è la settima meraviglia del mondo, da inscrivere di diritto e a pieno titolo nel panorama delle «magnifiche sorti e progressive» riservate alle universe genti umane. E in un simile quadro s’inserisce anche l’altra caratteristica eclatante del Festival di quest’anno: il formato-famiglia di svariati allestimenti, da quello de «Il bugiardo» (con Geppy Gleijeses, suo figlio Lorenzo, sua

Valeria Parrella e Davide Iodice

Valeria Parrella e Davide Iodice

moglie Marianella Bargilli, Andrea Giordana e suo figlio Luchino) a quello di «Euridice e Orfeo» (con Valeria Parrella in veste di autrice e suo marito Davide Iodice in veste di regista).
Ma ora spendiamo qualche parola sul pubblico. A me non interessa il numero degli spettatori che hanno seguito gli spettacoli del Festival. M’interessa, invece, il fatto che nel corso della stagione canonica quegli spettatori a teatro non li vedo mai, in alcun teatro. Chi erano, da dove venivano, quali motivi li spingevano a vedere questo o quello spettacolo? Il padre di un giovane autore, regista e attore ospitato dal Festival mi ha raccontato che lui e la moglie, recatisi in varie agenzie per acquistare i biglietti relativi all’allestimento del figlio e da regalare a parenti e amici, si son sentiti puntualmente rispondere che per quello spettacolo c’era il tutto esaurito. E il genitore in questione s’era meravigliato non poco, perché, mi ha detto con assoluta e ammirevole sincerità, certamente suo figlio non aveva tutto quel seguito…
Poche annotazioni, infine, sull’aspetto organizzativo della manifestazione: troppi spettacoli (oltre sessanta), troppi accavallamenti di taluni di quegli spettacoli nella stessa sera e, soprattutto, la decisione folle di collocare la cosiddetta «cittadella» del Festival in un luogo, Castel Sant’Elmo, lontanissimo dal centro e, stante il traffico convulso di Napoli, difficilissimo da raggiungere. Occorrevano, volendo servirsi del taxi, dai diciassette euro in su. E il paradosso è che, per converso, quasi tutti gli spettacoli di un certo rango sono stati ospitati nei vari teatri della «pianura», compreso quel Politeama che è chiuso da anni. Anche qui, evidentemente, si trattava di distribuire polpette.
Ma torniamo ai giornali. Nelle pagine locali de «la Repubblica» e in quelle del «Corriere del Mezzogiorno» non è comparsa nemmeno una, dico una, recensione (parlo di una recensione vera e propria, non di un trafiletto di poche righe) riferita agli spettacoli proposti, mentre pagine su pagine sono state riservate alle presentazioni acritiche e spesso osannanti degli stessi. E anche per questo, allora, ha destato grande sorpresa l’attacco furioso che Giulio Baffi ha portato al Festival e che «la Repubblica» (definendolo nell’occhiello «La polemica», quasi a voler prenderne le distanze) ha pubblicato il 17 giugno: tanto più che si era appena a metà della rassegna e, quindi, risultava piuttosto prematuro e azzardato un giudizio sulla medesima.

Igina Di Napoli

Igina Di Napoli

Però, però… «Nun c’è bisogno ‘a zingara / p’andivina’, Cunce’… / Comme t’ha fatto mammeta / ‘o ssaccio meglio ‘e te!..». Sicché qualcuno ha osservato che l’attacco in questione è stato sferrato proprio all’indomani dell’elezione di Vincenzo De Luca a presidente di quella Regione Campania che dovrà procedere attraverso la Fondazione Campania dei Festival alla nomina del nuovo direttore della rassegna. E di conseguenza, quel qualcuno ha parlato di un’autocandidatura. Ma si fanno anche altri nomi per la carica di direttore del Napoli Teatro Festival Italia: soprattutto quello di Igina Di Napoli, politicamente assai vicina a De Luca e imprenditrice teatrale di lungo corso il cui lavoro, del resto, io stesso ho appoggiato, con decine e decine di articoli, da trent’anni a questa parte.
Ebbene, Igina Di Napoli, dopo la mia recensione negativa di «Crave» (uno spettacolo diretto da suo genero…), mi ha mandato un’e-mail in cui – senza intervenire nel merito dell’analisi che avevo sviluppato circa il testo e la regia – mi accusa di aver «attaccato» Pierpaolo Sepe perché mi è «antipatico» e perché «non è cerimonioso», di essere «assolutamente prevenuto» contro di lui, di non essere «più libero a volte nemmeno nello sguardo», di esercitare un «ricatto psicologico», di «andar fiero» del fatto che «bisogna temermi» e, infine, di non voler «profittare» dell’essere «gentile e generoso». E io alla mia interlocutrice non posso rispondere che questo: se proprio non ce la fa a non scrivere simili sciocchezze, almeno mi faccia il favore di scriverle in italiano.

Luca De Fusco

Luca De Fusco

Un’ultima considerazione e chiudo. Intitolai il commento del 12 aprile scorso «Lo spettro di Castel Sant’Elmo», alludendo a quel Luca De Fusco che è stato costretto a dimettersi dalla carica di direttore del Napoli Teatro Festival Italia pur avendone già approntato oltre la metà del cartellone. E adesso lo «spettro» si è vendicato. Negli stessi giorni, il 20 e il 21 giugno, in cui alla Galleria Toledo il Festival ha proposto un allestimento colombiano de «La signorina Giulia» diretto da Lorenzo Montanini, lo Stabile di Napoli ha proposto al San Ferdinando – in anteprima rispetto alla normale stagione 2015-2016! – un allestimento del medesimo testo di Strindberg diretto dal cileno Cristián Plana.
Insomma, i tanti voli pindarici sulla qualifica di Teatro Nazionale attribuita allo Stabile cittadino e sull’eccellenza del connubio culturale fra il Teatro Nazionale e il Napoli Teatro Festival Italia precipitano nello stagno di una guerricciola fra bande. E la volete sapere una cosa? Io mi vergogno un poco, come giornalista e come napoletano.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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