Un rituale sull’orrore della parola che uccide

Un momento di «L.I. / Lingua Imperii» (foto di Velija Hasanbegovic)

Un momento di «L.I. / Lingua Imperii» (foto di Velija Hasanbegovic)

«In linguistica, per esempio, la grammatica indogermanica comparata ha permesso di formulare una teoria delle mutazioni fonologiche che ha un ottimo valore predittivo. Già Bopp, nel 1820, faceva derivare il greco e il latino dal sanscrito. Partendo dal medio iranico e seguendo le stesse regole fisse, si ritrovano parole in gaelico. Funziona, ed è dimostrabile».
È perfettamente comprensibile se un linguista di vaglia si abbandona a sottilissime disquisizioni del genere in una condizione di normalità. Ma se quel linguista, Voss, rivolge quelle parole a un ufficiale delle SS, Maximilien Aue, tra un’ammazzatina e l’altra di ebrei, zingari e comunisti nel Caucaso del 1942? Si tratta, in tal caso, della tremenda impassibilità del male: che è il tema de «Le Benevole», il best-seller di Jonathan Littell che mi ha fornito il passo di cui sopra.
Ebbene, proprio tre dialoghi fra Voss e Aue costituiscono la colonna portante di «L.I. / Lingua Imperii», lo spettacolo – importante e bellissimo – che la compagnia Anagoor ha presentato a Castel Sant’Elmo nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia. Il regista Simone Derai (autore, con Patrizia Vercesi, anche della drammaturgia) gli ha conferito la forma di un rituale che accoglie suggestioni da tutte le esperienze capitali del teatro d’avanguardia (leggi, poniamo: Living Theatre, Odin Teatret, Grotowski, Teatro Immagine, Il Carrozzone, giù giù fino alle sperimentazioni sulla voce della Raffaello Sanzio) per fonderle – ecco l’approdo straordinario – nel crogiolo di un acuto senso della storia che si nutre, insieme, di smarrite tenerezze e vertiginose scalate concettuali.
Un esempio? Mentre si leggono su uno schermo e si sentono recitati in inglese, tedesco, francese, croato, russo e armeno i «Consigli per un genitore in lutto», gli attori indossano corone di fronde, come per una festa, e poi si spogliano e, ammucchiati i vestiti in un canto, si accasciano disordinatamente gli uni sugli altri. Già, la Shoah. E davvero m’è sembrato che si spargesse, su quella sequenza, la consolazione del Qaddish intonato per i defunti.
Sì, la parola che Anagoor porta in scena è certo quella che, tacendo o mentendo, si fa complice del potere, ma è anche quella che, risuonando in teatro, si fa veicolo di rinascita. Accade, e basterebbe questo, con i canti folcloristici raccolti da Komitas Vardapet prima d’impazzire di dolore per il genocidio armeno e morirne.

                                                                                                                                              Enrico Fiore

(«Il Mattino», 27 giugno 2015)

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