Nella Venezia di Goldoni
fa capolino Hitchcock

 

Geppy Gleijeses, Marianella Bargilli e Lorenzo Gleijeses in una scena de «Il bugiardo» (foto di Salvatore Pastore)

Geppy Gleijeses, Marianella Bargilli e Lorenzo Gleijeses in una scena de «Il bugiardo» (foto di Salvatore Pastore)

Non credo che qualcuno ci abbia pensato, ma tra i due testi di Goldoni proposti dal Napoli Teatro Festival Italia, «La bottega del caffè» e «Il bugiardo», c’è un legame forte. Appartengono entrambi al gruppo delle famose sedici commedie nuove che il Veneziano diede alla luce nel corso della stagione 1750-’51 e, quel che più conta, hanno in comune il tema, centrale, della menzogna: mente Don Marzio, il protagonista de «La bottega del caffè», e mente Lelio, il suo omologo de «Il bugiardo», che, per giunta, è affiancato da altri due «colleghi» (Florindo, che dice bugie per timidezza, e Arlecchino, che le dice per gioco).
In particolare Lelio, dunque, viene assunto da Goldoni come cartina di tornasole rispetto a una situazione storica e sociale di passaggio e, per ciò stesso, complessa e ambigua. E assolutamente allusivi ed emblematici appaiono, allora, i versi ricorrenti della serenata posta, non a caso, in apertura della commedia: «Ma un certo no so che… / no so, se m’intendè, / fa che non so parlar».
Ebbene, Alfredo Arias – regista dell’allestimento de «Il bugiardo» che la Gitiesse ha presentato a Castel Sant’Elmo – quei versi li fa ripetere più volte, recitati da Florindo e, soprattutto, cantati da un personaggio inventato, che ancora non a caso è in maschera. Molto giusto, e molto intelligente. Così come è giusta e intelligente l’invenzione del valzer ballato da Lelio e Rosaura: poiché, non dimentichiamolo, proprio il valzer fu il simbolo musicale della «finis Austriae», ovvero del processo inesorabile che portò al crollo dell’impero di Francesco Giuseppe.
Altre invenzioni risultano invece o gratuite («La bambola» di Patty Pravo cantata in coro) o incomprensibili (i palloncini attaccati al filo che di tanto in tanto i personaggi si portano in giro) o troppo insistite (i lazzi in napoletano, accoppiati a battute tipo il reiterato «segreto/secrétaire») o ridondanti e scontate (il dibattito sul ruolo del teatro con annessa comparsa in scena dello stesso regista a mo’ di Hitchcock). Ma si sa, non è la moderazione la virtù principale di Arias.
Per riassumere, uno spettacolo che punta sull’intrattenimento senza escludere la riflessione. E in linea con tale impianto sono gl’interpreti: primi fra tutti Geppy Gleijeses (Lelio), Marianella Bargilli (Rosaura), Andrea Giordana (Pantalone), Mauro Gioia (Ottavio e la Maschera) e specialmente un Lorenzo Gleijeses che, nei ruoli di Brighella e Arlecchino, fa sì che la «qualifica» di figlio d’arte non rimanga, come di solito accade, una vuota frase fatta.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

(«Il Mattino», 16 giugno 2015)

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *