Maldicenze «napolitane»
sulla laguna di Venezia

 

Pino Micol in una scena de «La bottega del caffè»

Pino Micol in una scena de «La bottega del caffè»

Nel 1934 il neonato Festival del Teatro promosso dalla Biennale di Venezia partì, ovviamente, con una commedia di Goldoni, «La bottega del caffè», allestita per la regia di Gino Rocca nella corte del Teatro San Luca. E nel ruolo di Don Marzio, il maldicente «gentiluomo napolitano», recitò nientemeno che Raffaele Viviani: il quale fu talmente bravo che riuscì persino a far sorridere un certo Luigi Pirandello.
Nessuno ha ricordato quest’episodio, nel profluvio di parole spese sulle (presunte, molto presunte) «affinità elettive» fra Goldoni e Napoli a proposito dell’allestimento de «La bottega del caffè» diretto da Maurizio Scaparro e dato al Mercadante nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia. Eppure, si tratta di un episodio che avrebbe potuto fornire lo spunto per una riproposta innovativa della commedia in questione. Ve l’immaginate, poniamo, che cosa, nei panni di Don Marzio, sarebbe stato capace di combinare un Peppe Barra?
Scaparro, invece, ha preferito puntare sul sicuro, affidando il ruolo di Don Marzio a Pino Micol, attore che da sempre gli è caro, e rimpolpando il testo con citazioni da «Una delle ultime sere di Carnovale» e «Il teatro comico», due altre commedie di Goldoni che con «La bottega del caffè» non c’entrano niente ma sono state entrambe messe in scena dallo stesso Scaparro: rispettivamente nel 1989 e (protagonista ancora Micol) nel 1993.
Insomma, una sorta di Scaparro-story, connotata dalla pulizia formale ch’è propria del regista romano insieme con la predilezione per il racconto in sé. E s’intende che, su questa via, va sostanzialmente smarrito l’unico elemento che lega «La bottega del caffè» con il nostro presente: il fatto che l’azione (se di azione, in senso stretto, si può parlare) nasce e si consuma sul limite incerto fra la verità e l’apparenza. Del resto, proprio tale incertezza costituisce il terreno più fertile per le maldicenze di Don Marzio. Il quale svolge la funzione di cartina di tornasole rispetto a una situazione storica e sociale di passaggio e, per ciò stesso, in pari tempo complessa e ambigua.
Una spia evidente di una simile atmosfera di sospensione è peraltro la strenua esasperazione del famoso ritmo ternario tipico del dialogo goldoniano. E infine, per venire agl’interpreti, mette conto di rilevare che la prova di Pino Micol s’inscrive a sua volta in una professionalità sicura fortemente ancorata alla tradizione. Da citare, fra gli altri, Vittorio Viviani nel ruolo del caffettiere Ridolfo.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

(«Il Mattino», 11 giugno 2015)

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