Hitchcock e Marlowe
nella Cripta dei Cappuccini

Lucia Bianchi, Madeleine, in una scena di «Sudori freddi» (foto di Salvatore Pastore)

Lucia Bianchi, Madeleine, in una scena di «Sudori freddi» (foto di Salvatore Pastore)

Non c’è che dire, Giancarlo Sepe ritorna all’antico: addirittura a quando, nel febbraio del 1980, ci presentò al Politeama una rivisitazione del «Macbeth» alla luce di tutti i miti proposti dai capolavori del «giallo» e dal cinema «nero» degli Anni Trenta, quindi da Dashiell Hammett e Raymond Chandler per un verso e da Fritz Lang e Alfred Hitchcock per l’altro.
Adesso, in «Sudori freddi», lo spettacolo in programma a Castel Sant’Elmo nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia, Sepe s’ispira infatti a Pierre Boileau e a Thomas Narcejac, autori del romanzo «D’entre les morts» da cui per l’appunto Hitchcock trasse nel ’58 il film «La donna che visse due volte». E a ribadire tale suggestione sta la circostanza che il titolo dello spettacolo di Sepe si riferisce sia a quello del film, «Vertigo», sia a quello, giusto «Sueurs froides», che assunse il romanzo dopo l’uscita del film.
Lo spettacolo, dunque, tiene di entrambi. Del romanzo perché la trama si svolge in Francia, con l’investigatore Flavières che s’innamora di Madeleine e, dopo ch’è morta, crede di rivederla in Renée Sourange, non sapendo che costei è stata ingaggiata dal marito di Madeleine, Gévigne, per coprire il suo assassinio della moglie; e del film perché porta a galla tutta l’inquietante morbosità di cui fu capace Hitchcock, a partire dal fatto che, qui, c’imbattiamo in un «amour fou» che si traduce in vera e propria necrofilia: stante quel protagonista che spasima per una donna morta attraverso una donna viva.
Ecco, allora, che la scena è una scatola nera che una porta scorrevole sul fondo, aprendosi come il sipario di un teatrino all’italiana, trasforma nell’«arsenale delle apparizioni» pirandelliano. E immagini di sogno o d’incubo entrano così ad inverare, peraltro, la sapienza figurativa che di Sepe è propria da sempre. Si mescolano l’illusionismo e l’horror, e Gévigne diventa un imbonitore da fiera che ostenta un pupazzo da ventriloquo.
Mi pare, insomma, che soprattutto un altro romanzo presieda a «Sudori freddi»: quello di Joseph Roth, «La Cripta dei Cappuccini», ch’è il grande romanzo della Fine, ossia della vita ridotta a funzione della morte e di un presente squallido attraversato soltanto come occasione per rimpiangere lo splendore del passato. Ne fa fede la sequenza – una delle più alte e spietate e commoventi del teatro degli ultimi anni – in cui la «Ne me quitte pas» di Jacques Brel, forma chiusa e limpidissima del rimpianto, si sfrangia nei movimenti disarticolati e deliranti degli attori.
Già. Qui Flavières, come già il Macbeth di trentacinque anni fa, si tramuta nel Philip Marlowe che contempla il «grande sonno». E superfluo, a questo punto, è annotare la prova rilevante fornita dagl’intepreti: Lucia Bianchi (Madeleine), Federico Citracca, Michele Galasso, Gianluca Spatti e Guido Targetti (Flavières, lo Scottie di Hitchcock), Federica Stefanelli (Midge, la fidanzata di Scottie) e Pino Tufillaro (Gévigne, il Gavin Elster del film).
Ma infine – giusta la sequenza reiterata dello scivolare dei personaggi giù dai tetti – penso che come epigrafe ideale di questo spettacolo, davvero da non perdere, vada posta la frase di Kundera: «Prima di scomparire definitivamente dal mondo, la bellezza esisterà ancora un poco per errore».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

(«Il Mattino», 6 giugno 2015)

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