Una Medea colpevole
col capo cosparso di cenere

Valentina Banci nelle vesti di Medea (foto di Maurizio Zivillica)

Valentina Banci nelle vesti di Medea (foto di Maurizio Zivillica)

SIRACUSA – Come sappiamo (o dovremmo sapere), rispetto a quella di Euripide – fatta dell’intreccio, se non dell’equilibrio, fra intelligenza e sentimento, ragione e passione, riflessione e desiderio – la Medea di Seneca è odio e passione allo stato puro, rappresentati nel loro parossistico scatenarsi e nella completa, e inesorabile, assenza (o impotenza) della ragione. In breve, la Medea di Seneca è connotata, insieme, dall’immanenza della passione che la divora e da una dimensione «carnale» per suo conto incorruttibile perché immutabile.
D’altronde, l’immanenza della passione di cui dico – ossia il dato «ontologico» di una passione in sé, che non conosce cause esterne a se stessa – viene ribadita come meglio non si potrebbe dall’ultima battuta rivolta da Giasone a Medea: «Vattene per gli spazi celesti, nel cielo più alto. Sarai la prova vivente, dovunque arriverai, che gli dei non esistono». E non a caso, del resto, Artaud riconobbe proprio in Seneca il più deciso e limpido antesignano del «teatro della crudeltà».
Ma sarebbe un’impresa vana, e folle addirittura, tentar di rintracciare qualcosa di tutto questo nell’allestimento della «Medea» di Seneca diretto da Paolo Magelli e dato nel Teatro Greco di Siracusa come terza tappa della «Trilogia del mare» proposta dall’Inda per il suo cinquantunesimo ciclo di spettacoli classici.
Non rimane che chiedersi, smarriti e immalinconiti, che cosa mai significhino i segni disseminati in profluvio dalla regia: a cominciare dall’enorme struttura che campeggia al centro dello spazio scenico e termina con un elemento mobile che funziona esattamente come il soffietto delle vecchie macchine fotografiche. Poiché Medea, alla sua prima apparizione, si materializza uscendo proprio da quel soffietto, significa, forse, che così Magelli annuncia la sua intenzione di mettere a fuoco il personaggio?
Ma, di grazia, non sarebbe tanto magnanimo, Magelli, da spiegarci se non è per l’appunto quello di mettere a fuoco i personaggi lo scopo di qualsiasi regista e di qualsiasi messinscena? E ancora, a che cosa tendono quei dignitari di Corinto che, abbigliati come fraschette e bellimbusti del primo Novecento, si agitano scompostamente su una bianca distesa punteggiata di pozze d’acqua? E perché determinate battute vengono ripetute anche quattro o cinque volte di seguito? E che cosa vuol essere il fatto che Medea va a pronunciare fra il pubblico la sua invocazione al «popolo delle ombre», una provocazione contro gli spettatori/turisti e le scolaresche ignare?
È difficile trovare risposte. Possiamo solo constatare che nella (si fa per dire) recitazione prevale di gran lunga lo strillo, col che va a farsi tranquillamente benedire lo squisito impianto verbale di Seneca. E magari Magelli, che ha lavorato spesso nei Paesi di lingua tedesca, pensava all’espressionismo…
Venendo infine a Medea così come si configura in quest’allestimento, non si sa chi stravisi di più il personaggio originale, se l’interprete o il regista: giacché, mentre Valentina Banci affoga il «cuore selvaggio» che a Medea attribuisce Seneca nell’accavallarsi senza costrutto di toni infantili, striduli e cupi, Magelli s’inventa un finale in cui, invece d’involarsi sul carro alato, la maga venuta dalla Colchide rimane sepolta sotto la cenere dell’incendio della reggia di Creonte che le corifee le rovesciano addosso a secchiate. Come dire che è colpevole e muore della sua stessa colpa.
I bambini, poi, li uccide con un colpo d’illusionismo, mettendogli sul petto una mano precedentemente, e senza dare nell’occhio, sporcata di finto sangue. Mago per maga, avrebbe fatto meglio Silvan. E insomma, un altro spettacolo comico dopo l’«Ifigenia in Aulide» di Federico Tiezzi. La differenza è che la comicità di Tiezzi era voluta, quella di Magelli è involontaria.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *