Se Zio Vanja pensa al cinema

Sergio Rubini e Michele Placido in «Zio Vanja»

Sergio Rubini e Michele Placido in «Zio Vanja»

Lo sappiamo, in Cechov vengono meno entrambi i cardini del dramma borghese: il dialogo (spesso sostituito, di fatto, da un intrecciarsi di monologhi mascherati) e l’azione. E ce ne offre una lampante dimostrazione «Zio Vanja», a partire da quel «non si può» che ripetono, a turno, quasi tutti i personaggi principali, da Sonja a Elena, da Serebrjakov ad Astrov.
Non a caso, dunque, si rivela ineffettuale la passione fra Astrov ed Elena. E se zio Vanja giungerà a sparare a Serebrjakov, lo mancherà per ben due volte, così da prorompere, alla fine, in un’esclamazione davvero degna di quel vaudeville che tanto piaceva a Cechov: «Non l’ho colpito? Ancora cilecca? Oh diavolo, diavolo… Il diavolo se lo porti».
Infatti, i personaggi in campo sono appena dei fantasmi, che nascono e muoiono nel limbo della solitudine e della rinuncia; e per loro – tra la nascita e la morte – esiste unicamente la condanna a un ruolo, immutabile e perennemente inutile: quello di onesto amministratore della tenuta per zio Vanja, quello di umile ancella per la bruttina Sonja, quello di scienziato trombone per Serebrjakov, quello di «predatrice» per la sua insoddisfatta moglie Elena, quello di ecologista ante litteram per Astrov…
Sono ruoli che, ovviamente, prendono il posto della vita vera, in un presente che – per dirla con Szondi – «è oppresso dal passato e dall’avvenire, è un intervallo, un periodo d’esilio, dove la sola meta è il ritorno alla patria perduta».
Ma l’allestimento di «Zio Vanja» diretto da Marco Bellocchio (è in scena al Bellini) punta specialmente sul grottesco, e sino al punto di spingerlo sul terreno della caricatura e, quindi, della pura e semplice comicità. Vedi, tanto per fare solo un esempio, l’ingresso di Serebrjakov, che attraversa tutta la platea sull’onda di una marcia tonitruante. Ed è in tale contesto che va collocata la prova della ditta Sergio Rubini (Zio Vanja)-Michele Placido (Serebrjakov).
La migliore, perché la più vicina allo spirito cechoviano, risulta la nostra Lucia Ragni, una Maria Vasílevna connotata, insieme, da una tronfia ridicolaggine e da una sotterranea disperazione. Ma, in fondo, su questo spettacolo non occorre farla tanto lunga: l’impressione che si prova assistendovi è che si tratti, sostanzialmente, di una tappa di avvicinamento al film, sempre con Rubini e Placido protagonisti, che – per l’appunto – Bellocchio ricaverà da «Zio Vanja».
In proposito, basta considerare gli attori che recitano i monologhi citati avvicinandosi gradualmente al proscenio. Non siamo di fronte alla zoomata che conduce al primo piano?

                                                                                                                                      Enrico Fiore

(«Il Mattino», 16 gennaio 2014)

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