Il viaggio dei drughi da Beethoven a Morgan

Foto di gruppo con Morgan degli interpreti di «Arancia meccanica» (foto di Francesco Squeglia)

Foto di gruppo con Morgan degli interpreti di «Arancia meccanica» (foto di Francesco Squeglia)

Eccoci, dunque, all’«Arancia meccanica» in scena al Bellini. Non si tratta di un adattamento qualsiasi del celebre romanzo di Burgess (titolo originale «A Clockwork Orange, Un’arancia a orologeria») datato 1962 o dell’altrettanto celebre film che nel ’71 ne ricavò Kubrick, ma – cosa che nessuno ha ricordato – del vero e proprio testo teatrale che, a partire dal suo romanzo, Burgess scrisse nel ’90 nientemeno che per la Royal Shakespeare Company.
Ebbene, c’è da aggiungere al riguardo (e anche questo nessuno l’ha ricordato) che appena un anno dopo il testo di Burgess venne allestito in Italia con la regia di Cherif, le musiche originali degli U2, le scene di Arnaldo Pomodoro e Geppy Gleijeses nel ruolo di Alex. E tanto sia detto non per stabilire paragoni del resto improponibili, ma per sottolineare la circostanza, assolutamente decisiva, che in quello spettacolo compariva, nella veste di traduttore, un drammaturgo come Enzo Moscato, ossia un grande manipolatore del linguaggio.
Infatti, il «nadsat», quel misto di dialetto londinese e desinenze slave che costituisce il gergo dei drughi, Moscato lo reinventava all’interno dello «speech», della parlata specifica dei vari personaggi; mentre, qui, la traduzione di Tommaso Spinelli si limita a un ingenuo e davvero troppo facile ricalco della grafia delle parole inglesi, per cui, poniamo, «guardare» diventa «lokkare» e «mostrare» diventa «shovare».
Il tutto si riduce, quindi, a un innocuo riassunto della storia (ormai datatissima) di Alex, il teppista-dandy che s’ubriaca di droghe e della musica di Beethoven finché non viene condizionato al punto di provare disgusto e per la violenza e per «Ludovico Van». E, così, vengono respinte ai margini tutte le valenze fondamentali del testo di Burgess: dall’evasivo «nonsense» alle mitologie fantascientifiche, dall’analisi sociologica al pamphlet politico, dalla parabola sui temi della colpa e della responsabilità nel sistema comunitario moderno alla ripresa, nella scia di Orwell e Huxley, della tradizione distopica, vale a dire dell’utopia alla rovescia. Senza contare, per l’appunto, la questione capitale del linguaggio.
Il romanzo di Burgess porta ancora una volta in primo piano il linguaggio come «corpo verbale» di Sartre, giacché l’incomprensibile gergo messo in bocca ai drughi rappresenta per loro un modo di nascondersi e, dunque, di cancellarsi. E non a caso, allora, uno degli episodi cruciali di «A Clockwork Orange» vede Alex e i suoi compagni irrompere in una casa di periferia e distruggere il manoscritto di un romanzo intitolato proprio «Arancia meccanica». Si tratta di una plateale tautologia collegata al motivo dell’autodistruzione, della tendenza al suicidio che si cela nell’inconscio di questi giovani «antieroi».
Ma nello spettacolo in scena al Bellini anche quell’episodio viene sottovalutato e, di fatto, messo fra parentesi. E per contro il regista, Gabriele Russo, accumula neon, luci stroboscopiche e un’incongrua citazione del beckettiano «Finale di partita» (il barbone conficcato come Nagg in un bidone della spazzatura), al pari di Morgan che – sui canonici brani di Beethoven (estrapolati soprattutto dalla Nona) – accumula dissonanze, distorsioni e un’altrettanto incongrua citazione di «My funny Valentine».
Tralascio, poi, d’insistere più di tanto sul fatto che la scatola semovente (l’interno della mente di Alex, dice il regista) in cui sono ambientate alcune delle sequenze principali ricorda la gabbia montata su una pedana circolare girevole che imprigionava l’azione nell’allestimento di Cherif. E in un simile quadro, la pur impegnata prova degl’interpreti resta fine a sé stessa. Accanto a Daniele Russo (Alex), citerei Marco Mario De Notaris (Alexander, l’anziana signora, il cappellano) e Martina Galletta (la moglie di Alexander, Adolf, Joe).

                                                                                                                                              Enrico Fiore

(«Il Mattino», 8 aprile 2014)

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *