Quei riflessi nello specchio
di una donna chiamata Coco

Milena Vukotic in una scena di «C come Chanel»

Milena Vukotic in una scena di «C come Chanel»

«Mi piacciono gli specchi… il riflettersi delle immagini… nel fondo di uno specchio il tuo corpo si disperde, sfugge, diventa vagabondo e fluido come nell’acqua… siamo esseri plurimi e differenziati… Mi piacciono molte verità, molte bugie, molte risposte…».
Si presenta così la protagonista di «C come Chanel», il bel testo di Valeria Moretti in scena ancora oggi al Troisi; e subito dopo aggiunge: «Ecco, più donne vestono Chanel più mi sembra di sdoppiarmi, di moltiplicarmi».
In breve, l’idea forte e intrigante qui messa in campo è che la celeberrima stilista abbia voluto diventare tale per sottrarsi alla solitudine anonima in cui restò murata da quando il padre l’abbandonò in un orfanotrofio. E dunque la battuta: «Io non faccio moda. Io sono la moda» costituisce non solo una delle tipiche «uscite» orgogliose e sprezzanti di Coco, ma anche e soprattutto la sottolineatura del suo proiettarsi fuori di sé, e appunto del «disperdersi» del suo dolore concreto e privato nelle «immagini» effimere e pubbliche delle proprie creazioni.
Vediamo, di conseguenza, che la realtà si mescola con il sogno, e il presente (gli ultimi anni trascorsi all’hotel Ritz) con il passato (la favolosa Parigi degli anni Venti in cui Coco visse circondata da gente come Picasso, Cocteau, Stravinskij, Diaghilev, Satie e Misia Sert).
Interagisce, la Coco Chanel di Valeria Moretti, con un uomo, Jacques, che è nello stesso tempo l’autista, il confidente e uno dei suoi non pochi amanti. E certo, non demerita David Sebasti, l’attore che lo interpreta e che, a tratti, si sdoppia nel personaggio di Cocteau. Però, ovviamente, tutto quanto sopra si riassume e si esalta nella prova maiuscola offerta da Milena Vukotic. La quale è capace, insieme, d’intingere nel veleno talune impagabili frecce (tipo: «Balmain? Lo perdono. Qualcuno deve pur vestire le donne della giungla») e di spargere il profumo angelico dell’«esprit de finesse», il ragionamento per sentimento di Pascal.
Discreta e funzionale la regia di Roberto Piana; e molto raffinati la scena di Guido Caodaglio, i costumi di Alessandro Lai e, specialmente, le luci di Vincent Longuemare. Ma due cose soprattutto non dimenticheremo: la sequenza in cui Coco balla col sottofondo di «In my solitude» di Billie Holiday e quella finale, in cui il fantasma del padre tanto a lungo invocato le spegne la luce e lei si addormenta per sempre sulle note dolcissime e disperate di «Plaisir d’amour».

                                                                                                                                              Enrico Fiore

(«Il Mattino», 13 aprile 2014)

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