Si è trasformata in un uomo
la «donna nuova» ritratta da Dix

Luc Schiltz in una scena di «Monocolo, ritratto di S. von Harden»

Luc Schiltz in una scena di «Monocolo, ritratto di S. von Harden»

«Monocolo, ritratto di S. von Harden» – lo spettacolo, scritto e diretto dal regista belga Stéphane Ghislain Roussel, che il Teatro Nazionale del Lussemburgo presenta alla Galleria Toledo – è basato sull’incontro, nella Berlino fra le due guerre, del pittore Otto Dix, esponente di punta del movimento della «Nuova Oggettività», con la giornalista Sylvia von Harden. Ne scaturì nel ’26 un quadro famoso, appunto il «Ritratto della giornalista Sylvia von Harden», oggi visibile nel Centre Pompidou di Parigi. E saltano subito all’occhio due differenze tra il quadro di Dix e lo spettacolo di Ghislain Roussel: in quest’ultimo compaiono uno specchio che riflette il pubblico e un posacenere sul tavolino che sta dinanzi a Sylvia.
Sono, evidentemente, due simboli, l’uno (lo specchio) dell’attualità e l’altro (il posacenere) della quotidianità ordinaria. In breve, se Dix ritrasse, nei modi di un espressionismo crudele e grottesco, la «donna nuova», emblema di un’epoca e di una società che stavano per precipitare nell’abisso di una ferina morte della ragione (vedi le dita simili ad artigli della mano sinistra di Sylvia portata in primo piano), Ghislain Roussel ritrae, nei modi di un Kabarett formale e ipnotico, un’epoca e una società, le nostre, che sono già precipitate nell’abisso dell’indifferenza.
Insomma, la Sylvia di Otto Dix la cenere della sigaretta l’avrebbe buttata in terra, quella di Ghislain Roussel la butta, disciplinatamente, giusto nel posacenere. E si capisce, allora, perché – mentre la Sylvia di Dix un uomo lo sembrava soltanto – quella di Ghislain Roussel è interpretata da un uomo a tutti gli effetti: viviamo il tempo in cui l’allusione e il chiaroscuro sono messi drasticamente al bando e trionfano, al contrario, l’ostentazione e la luce piena.
Infine, questo spettacolo intelligente e raffinato trova una sintesi perfetta nella prova straordinaria di Luc Schiltz: il quale è capace di padroneggiare con la massima disinvoltura ed efficacia espressiva sia l’immobilità da istantanea fotografica con cui riproduce, esattissimamente, il quadro di Dix, sia gli accessi spastici o addirittura epilettici introdotti dalla regia quali corrispettivi dello scarto fra l’apparire (forte) e l’essere (fragile) del personaggio. E la sigla di tanto simbolismo è l’«India Song» della Duras che, cantata da Jeanne Moreau, si aggiunge alle musiche di Viktor Ilieff: «Chanson, / toi qui ne veux rien dire / et toi qui me dis tout», la canzone che non vuole dir niente e che invece ci dice tutto.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

(«Il Mattino», 18 aprile 2014)

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