Finisce nell’incesto il Goldoni di Latella

Antonio Latella

Antonio Latella

Ciò che costituisce il pregio non comune de «Il servitore di due padroni» – la riscrittura della celebre commedia goldoniana che Emilia Romagna Teatro presenta al Bellini (la drammaturgia è di Ken Ponzio, la regia di Antonio Latella) – sta nello sguardo assolutamente contemporaneo gettato su una tradizione illustre ma, proprio a causa della sua proverbiale indiscutibilità, sterile e inerte. Una sterilità e un’inerzia che, ovviamente, riguardano tanto la lettura di Goldoni in generale quanto, in particolare, il ricordo del mitico «Arlecchino servitore di due padroni» di Strehler.
Infatti, se Strehler puntò – non a caso anteponendo al titolo di Goldoni il personaggio principale della commedia e per giunta chiamandolo Arlecchino, secondo la variante più nota e popolare della maschera, e non Truffaldino, secondo il testo originale – sulla componente della Commedia dell’Arte, Ponzio e Latella puntano sugli stilemi romanzeschi che connotano il teatro del Seicento: traducendoli in un’indagine persino da «giallo», e con risvolti di tipo psicanalitico, che tralascia i «numeri» pirotecnici, come i famosi lazzi e salti di Marcello Moretti e di Ferruccio Soleri. E, di conseguenza, la girandola di travestimenti e finzioni posta in essere da Goldoni viene spinta addirittura sul versante del sesso.

Roberto Latini in una scena de «Il servitore di due padroni»

Roberto Latini in una scena de «Il servitore di due padroni»

Avviene, in tal modo, che qui Arlecchino diventi il fratello di Beatrice, allo scopo di rendere esplicito (e «operante») il rapporto incestuoso a cui l’autore accenna soltanto, e di sfuggita, con la battuta di Brighella riferita a Federigo Rasponi: «lu el giera innamorà de sta so sorella» (atto I, scena prima). E si capisce, allora, perché nella circostanza lo stesso Arlecchino abbandoni la sua (per l’appunto tradizionale) livrea multicolore per vestire sempre e completamente di bianco: è la metafora del deserto dei sentimenti che oggi c’imprigiona.
Ma questo gelido impianto espressivo è giusto anche perché agli artifici che tanto piacquero a Strehler il testo di Goldoni accompagna l’atteggiamento di rivolta contro i padroni reiteratamente manifestato anche dai più umili fra i servi, i facchini: vedi l’insistenza con cui chiedono di essere pagati, sino a sfociare nel conato violento: «Adessadesso ghe butto el baul in mezzo alla strada» (atto I, scena quindicesima). E in proposito, appare oltremodo funzionale il fatto che l’incarico di dire al proscenio l’esortazione di Ponzio alla presa di coscienza («Vogliamo sopravvivere senza test, trucchi e false promesse, senza libri pieni di risposte»…) tocchi alla cameriera Smeraldina.
Proprio lei, del resto, è il primo personaggio che vediamo in azione appena (una frecciata ironica all’ufficialità teatrale!) s’apre il sipario: passa l’aspirapolvere, davanti a un televisore acceso, nella hall dell’albergo di Brighella che accoglierà per intero lo svolgersi della trama. E questo, poi, rimanda da un lato al minimalismo realistico della quotidianità e dall’altro all’essere, l’albergo, il luogo della spersonalizzazione per eccellenza e della vita ridotta a puro transito.

Da sinistra, Federica Fracassi ed Elisabetta Valgoi in un'altra scena de «Il servitore di due padroni»

Da sinistra, Federica Fracassi ed Elisabetta Valgoi in un’altra scena de «Il servitore di due padroni»

In quella sorta di arena, e ancora non a caso, i personaggi girano in tondo, strisciano sul pavimento o compiono ripetutamente percorsi rettilinei, in preda alla stessa nevrosi delle bestie in gabbia. E il parallelo attacco contro lo stanco rituale della «rappresentazione» assume via via gag (quel Pantalone senza pantalone…), battute («Ho sempre odiato gli a parte») e slittamenti di senso (vedi la pomiciata lesbica con Clarice in cui sbocca la rivelazione da parte di Beatrice d’essere non Federigo ma solo travestita da Federigo) dichiaratamente spudorati e iperbolici.
Tutto questo, naturalmente, si coagula e si esalta nell’ultima sezione dello spettacolo. Dopo che l’attore che interpreta Arlecchino ha sciorinato, uscendo dal plot, una dottissima nota sulle origini e le caratteristiche di quella maschera, lui e i suoi colleghi prendono a smontare l’impianto scenografico; e il fatidico «lazzo della mosca» diventa una semplice appendice dell’elenco delle portate di una cena che non avviene, corredata, in rapida successione, della descrizione scientifica dell’insetto in questione, della lettura delle istruzioni per l’esecuzione di quel lazzo nella versione, appunto, di Marcello Moretti e infine dell’esecuzione medesima, replicata più volte (giusto lo stanco rituale di cui sopra) e accompagnata da applausi muti.
Conclude Arlecchino compitando stentatamente su un foglio, alla debole luce di un mozzicone di candela, qualche passo del testo originale di Goldoni. Ed è la sintesi perfetta di uno spettacolo bello e importante, e benedetto – nel contesto sapiente delle scene e dei costumi di Annelisa Zaccheria, delle luci di Robert John Resteghini e del suono di Franco Visioli – dalla prova eccellente di un cast straordinario: Giovanni Franzoni (Pantalone), Elisabetta Valgoi (Clarice), Annibale Pavone (il dottor Lombardi), Rosario Tedesco (Silvio), Federica Fracassi (Beatrice), Marco Cacciola (Florindo), Massimiliano Speziani (Brighella), Lucia Peraza Rios (Smeraldina) e Roberto Latini (Arlecchino). Da non perdere.

                                                                                                                                       Enrico Fiore

(«Il Mattino», 22 febbraio 2014)

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