Un padre che è anche madre ma rifiuta i figli

Da sinistra, Maurizio, Olga e Zeno Bercini in un momento di «Padre nostro» di Babilonia Teatri (le foto che illustrano questo articolo sono di Salvatore Laurenzana)

Da sinistra, Maurizio, Olga e Zeno Bercini in un momento di «Padre nostro» di Babilonia Teatri
(le foto che illustrano questo articolo sono di Salvatore Laurenzana)

NAPOLI – Zeno: «Quando mio padre mi ha partorito non l’ho riconosciuto / era la prima volta che lo vedevo». E ancora Zeno: «Quando mio padre mi ha partorito / ha deciso di adottarmi». Poi Olga: «Quando mio padre mi ha partorito / il travaglio non finiva mai / è stato il primo di una lunga serie di silenzi». E ancora Olga: «Quando mio padre mi ha partorito ce l’ha messa tutta / ma ad essere sincera quando mi ha partorito mia madre mi sono trovata meglio».
Sono alcune delle battute che i due figli pronunciano all’inizio di «Padre nostro», lo spettacolo (si replica oggi) con cui Babilonia Teatri e La Corte Ospitale hanno aperto la stagione del Teatro Area Nord. E contengono, in sintesi, tutti i temi messi sul tappeto dal testo di Enrico Castellani e Valeria Raimondi: a cominciare dal fatto che qui la figura del padre non viene costretta, come di solito accade, nei limiti e nei lacci contingenti dello scontro generazionale, ma considerata sotto specie di entità ontologica, ovvero di qualcosa che esaurisce in sé ogni funzione e significato.
In breve, assistiamo, nella circostanza, al confronto tra un padre totalizzante, che perciò è, insieme, il seme e l’utero che quel seme fa fruttare, e dei figli che, invece, anelano a una separazione liberatrice, che perciò diventa una salutare fonte di conoscenza. Per questo Olga dice che quando l’ha partorita sua madre «si è trovata meglio». E a me, in proposito, son tornati di nuovo in mente i passi decisivi di «Andrea o I ricongiunti», il grande romanzo incompiuto di Hofmannsthal: «In quel che c’è di più singolo, particolare, si compie il destino, in quel che c’è di più particolare risiede la forza. Nulla di ciò che deve operare magicamente è in alcun modo vago, generale, ma qualcosa di estremamente singolare, di quel preciso momento»; e poi: «La vera poesia è l’arcanum che ci congiunge alla vita, che dalla vita ci separa. Il separare – soltanto se separiamo noi viviamo veramente – se noi separiamo anche la morte è sopportabile, solo quello che è mischiato è orribile».
In breve, il testo di Castellani e della Raimondi – testo, lo dico senza esitazione alcuna, fra i più densi e stimolanti che abbia letto negli ultimi mesi – mette in campo un padre che è un ossimoro irriducibile: deve generare, in quanto portatore di seme, ma contemporaneamente, in quanto votato all’«autarchia» esistenziale, rifiuta il frutto di quel seme: vorrebbe, per l’appunto, derubricare la paternità a semplice adozione. E al riguardo, mi sovviene un aneddoto relativo al nostro Viviani: si racconta che, quando gli chiesero che cosa pensasse dei suoi figli, Don Raffaele abbia risposto: «Scorie, scorie».

Da sinistra, Zeno, Maurizio e Olga Bercini in un altro momento dello spettacolo, che ha aperto la stagione del Teatro Area Nord

Da sinistra, Zeno, Maurizio e Olga Bercini in un altro momento dello spettacolo, in scena al Teatro Area Nord

L’aneddoto mi serve, peraltro, ad accennare che un non minore pregio del testo in questione sta nell’ironia con cui Enrico Castellani e Valeria Raimondi «straniano» tali complesse riflessioni. Badiamo, per fare un esempio, ai commenti di Zeno e Olga nel corso dell’autopsia simbolica del padre. Dice Zeno, tanto per dare un’idea: «[…] questo fegato mostra tutta la rabbia repressa del padre / mostra anche qualche bicchiere di troppo / in particolare vediamo delle chiare tracce di lambrusco evidenziate dal colore e dall’abboccato molto poco tannico di questo fegato»…
Nella stessa direzione, s’intende, va pure la parafrasi della canzone di Dalla che arriva alla fine: «Caro padre ti scrivo così mi distraggo un po’ / sarò breve e conciso / 180 caratteri ho»… Ma, invece, non scherza affatto la parafrasi della preghiera di cui nel titolo: «padre nostro che sei nella bottiglia di vino rosso sulla tavola, pranzo e cena / nella paura che mi frena e nell’azzardo che mi spinge / nei denti che uno dopo l’altro perdo / dammi oggi una ragione quotidiana per mettere giudizio / una ragione per comprendere come siamo diventati estranei / sediamo alla stessa tavola / abitiamo lo stesso tetto / ti ho di fronte e non so chi sei».
Nella nota introduttiva al testo Castellani e la Raimondi avvertono: «Padre nostro qui sta per nostro padre. La P è minuscola». E infatti il passo più bello di questa parafrasi, e il più significante in ordine all’ossimoro che ho sottolineato, è il seguente: «padre nostro che sei assente / prendimi per mano e abbandonami / lasciami la possibilità di desiderare / di agognare / di inseguire / di combattere / padre nostro che sei inadatto / toglimi la terra sotto i piedi». Appunto, è ciò che diceva Hofmannsthal: bisogna che ci separiamo se vogliamo ritrovarci, bisogna che seppelliamo il seme se vogliamo che ci dia il frutto.
Un ulteriore e altrettanto efficace straniamento sta, poi, nella sottolineatura per contrasto, a cominciare dalla sequenza iniziale: che, a fronte del laicismo inossidabile del «padre nostro» qui messo in campo, vede il padre e i due figli alternarsi a infilare monetine nella fessura del banchetto che nelle chiese mette a disposizione dei fedeli una selva di candele elettriche che si accendono in cambio di un obolo. E si procede, per giunta, sul piano degli autentici fuochi d’artificio di spiazzamenti continui. Fino alla sequenza conclusiva: in cui il padre, che aveva recitato compitamente il «Padre nostro» originale e perciò aveva ottenuto dai figli una coppa gigantesca, sale sul podio, leva in alto quella coppa e, improvvisamente, l’attacca con un flex.
Superfluo, infine, dire dei tre interpreti: Maurizio Bercini (il padre) e Olga e Zeno Bercini (i due figli) sono, ovviamente, davvero padre e figli. Perché quelli di Babilonia Teatri non sono spettacoli, sono lacerti di vita. E dunque, non possono affidarsi alla gente contro la quale sacrosantamente si scaglia, ne «I promessi sposi alla prova», il Maestro di Testori: «So bene che vi siete venduti, tutti e tutte, a quelle fandonie che han finito per togliervi ogni gusto, ogni senso e ogni regola di che sia il mestiere del recitante; il “mestè”, ecco, del farsi, dell’essere, qui, attore».

                                                                                                                                          Enrico Fiore

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