Platonov muore due volte, facendo «Ciao ciao»

Da sinistra, Riccardo Goretti, Petra Valentini, Francesca Fatichenti e Matilde Vigna in un momento de «La tragedia è finita, Platonov», dato alla Biennale Teatro (le foto che illustrano questo articolo sono di Luca Del Pia)

Da sinistra, Riccardo Goretti, Petra Valentini, Francesca Fatichenti e Matilde Vigna nel «Platonov» di Ferracchiati
(le foto che illustrano questo articolo sono di Luca Del Pia)

VENEZIA – Come già m’era capitato di osservare a proposito di suoi colleghi che avevano messo in scena quello stesso testo, il primo dei meriti di Liv Ferracchiati – regista dell’allestimento del «Platonov» di Cechov presentato dallo Stabile dell’Umbria, col titolo «La tragedia è finita, Platonov», nell’ambito del 48° Festival Internazionale del Teatro promosso dalla Biennale e diretto da Antonio Latella – sta proprio nell’averlo ideato e realizzato, tale allestimento: nell’averlo ideato e realizzato, voglio dire, nel pieno della crisi (sanitaria, morale, economica, sociale, politica e culturale) che oggi c’investe.
«Platonov» è il cosiddetto «dramma inedito», scritto da Cechov nel biennio 1880-’81, quando l’autore de «Il giardino dei ciliegi» non aveva che una ventina d’anni. E si tratta di un testo che consiste in uno studio di psicologia individuale, centrato su un avvilito maestro elementare, appunto Michail Platonov, che affoga nel vuoto della sua immutabile esistenza di dongiovanni di provincia, in un’atmosfera che risente, addirittura, degl’influssi di Dumas figlio e di Sardou. Tanto che, non a caso, un altro personaggio, Glagol’ev, dice che, secondo lui, Platonov «è il miglior rappresentante dell’indeterminatezza contemporanea», aggiungendo: «È il protagonista del migliore romanzo contemporaneo, purtroppo, però, non ancora scritto… […] Tutto è estremamente vago, incomprensibile. Tutto è confuso, imbrogliato… Ecco, di questa indeterminatezza, secondo me, il nostro intelligentissimo Platonov è l’esponente».
È perciò, senza dubbio, che l’opera in questione torna puntualmente alla ribalta nei momenti di crisi. Come avvenne, per fare un esempio, nel 1940, quando gli americani l’allestirono ambientandola, col titolo «Fireworks on the James», in uno stato meridionale degli Usa. E d’altronde, a suggerire tali sintonie con i periodi bui è la stessa fisionomia sfuggente del dramma: venne ritrovato soltanto nel 1921, diciassette anni dopo la morte dell’autore, privo del frontespizio e, quindi, del titolo. Il titolo «Platonov» gli è stato dato in Francia, probabilmente da André Barsacq. Ed ecco perché, nel 1997, Dodin, il maestro del Malij Teatr di San Pietroburgo, intitolò «Un’opera senza titolo» un suo splendido allestimento del «Platonov», specificando nelle note di regia: «Un’opera senza titolo è la vita. Anche la vita è un’opera senza titolo. Soprattutto la nostra vita attuale».
Ebbene, venendo allo spettacolo di Ferracchiati, dico subito che assai di rado m’ero imbattuto, precedentemente, in un adattamento che si traducesse con tanta determinazione in un’autentica riscrittura del testo originale e che, tuttavia, con pari determinazione onorasse le ragioni profonde di quest’ultimo. A partire dal titolo, che annuncia con chiarezza esemplare quali saranno le forme e i ritmi della messinscena: poiché – stante l’impossibilità di continuare ad inseguire la tragedia, impossibilità determinata, giusto, dalla ridicola consistenza di Platonov – qui s’accampano le agnizioni e le iterazioni tipiche di quel vaudeville che, come sappiamo, a Cechov fu caro.

Da sinistra, Liv Ferracchiati e Riccardo Goretti in un altro momento dello spettacolo, dato alla Biennale Teatro

Da sinistra, Liv Ferracchiati e Riccardo Goretti in un altro momento dello spettacolo, dato alla Biennale Teatro

Nel merito, per prima cosa Ferracchiati abolisce tutti i personaggi maschili (tranne, s’intende, quello di Platonov) e trasforma il côté femminile (Anna Petrovna, la giovane vedova del generale Vojnicev, Marja Efimovna Grekova, la ventenne proprietaria terriera vicina dei Vojnicev, Sofja Egorovna, moglie del figlio di primo letto del generale Vojnicev, e Sasha, la moglie di Platonov) in un gineceo da «Albergo del libero scambio», adottando di conseguenza quella che fu la regola aurea enunciata da Feydeau: «Quando, in una delle mie commedie, due personaggi non devono assolutamente incontrarsi, io li faccio trovare puntualmente faccia a faccia».
Ne derivano sequenze irresistibili, come, poniamo, quella in cui la Grekova, mentre sta per andare via dopo un burrascoso incontro con Platonov, cade, in un crescendo da comica finale, sia quando s’imbatte in Sofja sia quando entra Anna Petrovna. E tuttavia non si perita di affermare: «Io non sono una donnetta, sono forte, non sono una ragazzina, sono grande», concludendo, nientemeno, con un incongruo: «Non inciampo».
Ma, beninteso, il sarcasmo lucido e mirato di Ferracchiati va ancora oltre, nel bersagliare i minuetti boulevardiers di quelle donne frenetiche e petulanti: vedi le «escursioni», da classico film porno all’italiana, della Sasha che, osservata dal Lettore seminascosto, s’abbassa le mutande e s’ispeziona con uno specchio e della Sofja che s’infila una sigaretta nella vagina e poi la mette in bocca al Lettore.
Già, il Lettore. Ci sono tante altre invenzioni pregnanti, come quella per cui la rivoltella che ucciderà Platonov cala dall’alto, a mo’ di un irridente «deus ex machina». Qui, però, entra in gioco l’idea strepitosa che regge lo spettacolo. Ferracchiati colloca accanto a Platonov per l’appunto il personaggio del Lettore, naturalmente non previsto da Cechov e che definisce: «uno che prende troppo sul serio quel che legge». Ed è facile intuire che cosa succede: in un vertiginoso inseguirsi e accavallarsi di piani, e nel solco d’inesausti slittamenti di senso, di volta in volta il Lettore (a tratti – l’ennesimo sberleffo demitizzante – impegnato al vogatore) s’identifica con Platonov e Ferracchiati s’identifica con il Lettore, mentre il gineceo che ruota intorno a Platonov interagisce e interloquisce con lo stesso Platonov e con il Lettore come se fossero un solo personaggio.

In senso orario, ancora Francesca Fatichenti, Riccardo Goretti, Petra Valentini e Matilde Vigna

In senso orario, ancora Francesca Fatichenti, Riccardo Goretti, Petra Valentini e Matilde Vigna

Si approda, così, all’invenzione decisiva. Nel testo di Cechov la morte di Platonov arriva solo alla fine, quando Sofja gli pianterà nel petto la pallottola che lui, pur meditando di farlo, non aveva avuto il coraggio di sparare. Nella riscrittura di Ferracchiati, invece, quella morte avverrà due volte, non solo alla fine ma anche al principio dello spettacolo: a sottolineare impagabilmente l’anarchia di un dramma improbabile e irrappresentabile e, insieme, il motivo fondamentale che sta dietro l’incapacità di uccidersi manifestata da Platonov: la condanna, per lui come per tutti gli altri personaggi di Cechov, a fare qualcosa di ancora più difficile che morire, la condanna a continuare a vivere.
È quasi superfluo, dunque, precisare che, la seconda volta, a sparare a Platonov sarà il Lettore. Perché è il Lettore/Ferracchiati (e, meglio, il Lettore/Ferracchiati che s’identifica con Cechov) il solo che può rendersi conto di dover mettere in atto una morte finta. E su tutto, infine, aleggia la più volte citata «Ciao ciao» di De Gregori: «Ciao ciao, / andarmene è un peccato, però ciao ciao. / Bella donna che alla porta mi saluti. / E baci, abbracci e sputi, / e io che sputo amore, io che non sputo mai. / Ciao ciao, andarsene era scritto perciò ciao ciao». Non c’è che dire, il «Platonov» di Ferracchiati incarna, e non poteva essere diversamente, l’ossimoro insormontabile che è la nostra vita in questo tempo sospeso.
Infatti, lo spettacolo si chiude con la voce registrata del Lettore che dice: «All’origine di tutto c’è / la mia paura di non vivere abbastanza, / di sprecarla questa vita, / c’è il mio orrore per la noia, / per la forma vuota, / per il vivere vite che non vorremmo, / la sensazione che stare su un orlo sia l’unico modo».
Aggiungo, venendo adesso all’allestimento, che la regia di Ferracchiati non avrebbe potuto renderlo meglio, tutto questo. A partire dal particolarissimo rapporto dialettico che stabilisce fra i personaggi di Cechov, che agiscono in abiti d’epoca all’interno di un quadrato, un vero e proprio ring, disegnato sulle tavole al centro del palcoscenico, e il Lettore, che, quando lascia il vogatore, gira quasi ininterrottamente, in un abito moderno, lungo i lati di quell’enclave: acutamente, così, Ferracchiati riduce i personaggi di Cechov a semplici proiezioni delle idee che nutre il Lettore medesimo e in fatto di letteratura in generale e per quanto attiene al «Platonov» in particolare. Tanto è vero che, prigionieri del loro ring, i personaggi del plot s’immobilizzano puntualmente, in autentici «fermo immagine», allorché si determinano le considerazioni-chiave del Lettore.
Eccellente, infine, la prova degl’interpreti: Riccardo Goretti (Platonov), lo stesso Liv Ferracchiati (il Lettore), Alice Spisa (Sasha), Matilde Vigna (Anna Petrovna), Francesca Fatichenti (la Grekova) e Petra Valentini (Sofja). E – vedi i costumi di Francesca Pieroni – è persino elegante, questo spettacolo. Ma non si tratta di una contraddizione, rispetto a quanto sopra. Il fugacissimo uso della lampada stroboscopica che a un certo punto fa l’autore delle luci, Emiliano Austeri, significa che quell’eleganza traduce solo il sospetto (o la speranza) che la bellezza sia ancora possibile.

                                                                                                                                       Enrico Fiore

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