Viviani e il teatro della «discordia»

Un momento de «La musica dei ciechi» nella messinscena dell'autore. Viviani è il secondo da sinistra (la foto appartiene all'archivio della famiglia Viviani)

Un momento de «La musica dei ciechi» nella messinscena dell’autore. Viviani è il secondo da sinistra
(la foto appartiene all’archivio della famiglia Viviani)

NAPOLI – Riporto il commento pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

«Sorgerà un artista come una brutta giornata. Una di quelle giornate d’inverno tutte nere, fredde, pungenti, dalla pioggia appuntita e frenetica che ti sbatte in faccia e sul corpo a cenciate quasi fossero lanci a manciate di pruni. Di dolore avrà fatta la vita, continuo, infinito, per non poter giungere a dare con la sua opera la pace né a sé né agli altri. Non conoscerà compromessi: tra i suoi atti e la sua arte tutto sarà coerenza. La croce addossatasi la porterà non come condanna, ma quale simbolo di fede. Unico tormento: l’arte; sola preoccupazione: donare. Questi e non altri i principii di un vero artista e di ogni essere che sia a rappresentare tra gli uomini un loro culmine di bellezza».
Sono le parole della nota «L’Essenziale» – forse disperate, forse impavide, probabilmente disperate e impavide a un tempo – che Ottone Rosai, il quale fece della pittura un cammino di solitudine e ascesi, pubblicò ne «Il Frontespizio». Le avevo già citate in altre occasioni, ma mi obbliga a farlo ancora una volta, e addirittura con prepotenza, «In difesa di Viviani: il distruttivismo e l’attivismo di Paolo Ricci e Carlo Bernari», il breve (in tutto una quarantina di minuti) reading/concerto che Mauro Gioia ha presentato nell’ipogeo del complesso museale di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco nell’ambito di «Senso Viviani», la rassegna di poesia e musica ideata da Gianni Valentino.
Il titolo, del tutto inusuale, traduce con precisione massima l’intento di Gioia: quello di tracciare un ritratto di Viviani basato sull’opinione che di lui ebbero due intellettuali di spicco quali, per l’appunto, Paolo Ricci, pittore e gran critico teatrale de «l’Unità», e Carlo Bernari, lo scrittore che con il romanzo «Tre operai» mise in allarme Mussolini. Così – accanto alle canzoni tratte dalla «Piedigrotta Viviani» pubblicata da Gennarelli (per esempio «Barcarola islandese» e «Che catena!») e ai canti più noti (come «E io lasso ‘a casa mia, lasso ‘o paese», «Comme ‘a fronna» e «Canzone ‘e sott’ ‘o carcere») compresi rispettivamente in «Scalo marittimo», «Via Toledo di notte» e «Circo equestre Sgueglia» – ci sono i brani estrapolati, giusto, da scritti vari di Ricci e Bernari. Ed è qui – voglio dire, al di là della solita classe esibita dal Mauro Gioia interprete e della bravura del suo accompagnatore, l’arpista Gianluca Rovinello – che si rivela l’importanza dell’operazione.
In «Ritorno a Viviani» (Editori Riuniti, 1979) Paolo Ricci ha scritto, fra l’altro: «La forza e l’attualità del messaggio di Viviani risiede proprio nel fatto, nuovo nel costume e nella cultura napoletana, di sorgere “dall’interno” della stessa realtà popolare, ecco perché la denuncia, o anche, semplicemente l’affiorare a dignità di poesia e d’arte di certi rapporti umani e sociali anacronistici in una società moderna assumono un così straordinario valore di originalità: non soltanto di contenuto ma di linguaggio. (…) Viviani recupera il linguaggio pungente e aspro del popolo, l’unico in grado di esprimere i suoi stessi sentimenti e le sue idee». E quasi come un eco prosegue il discorso Bernari.

Mauro Gioia e Gianluca Rovinello in un momento dello spettacolo «In difesa di Viviani»

Mauro Gioia e Gianluca Rovinello in un momento dello spettacolo «In difesa di Viviani»

In «Bibbia napoletana» (Vallecchi, 1961) osserva: «La concezione della vita, nel teatro del Viviani, non mi sembra né umile, né rassegnata: la direi invece cosciente e disperata, perché nel suo teatro Viviani non si limita ad abbattere le pareti dell’intimità borghese ma abbatte la stessa problematica borghese che il nostro teatro, soprattutto il teatro dialettale, aveva piuttosto fiaccamente ereditato dal naturalismo». E per quanto riguarda la questione della lingua, aggiunge: «Il dialetto stesso non è l’espediente per far sorridere le platee ai guai che capitano a Pulcinella, a Pasquariello, e al Camorrista o a don Felice Sciosciammocca ma assurge a valore e a dignità di lingua; lingua che in Viviani non si limita ad essere “una traduzione per farsi capire simpaticamente dagli elementi del popolo” (come diceva Gramsci): per Viviani il vernacolo è esigenza espressiva, nasce contemporaneamente e con la stessa forza e da quella medesima coscienza che esplora ed elabora i nuovi contenuti realisticamente».
Ma torno subito all’inizio. Raffaele Viviani (e ne fanno fede proprio le citate considerazioni di Ricci e Bernari) fu la perfetta incarnazione dell’artista quale lo pensava e voleva Rosai. Perché Viviani, appunto, non giunse a dare con la sua opera la pace né a sé né agli altri, Viviani, come il Gesù del Vangelo (Matteo, X, 34), venne a portare non la pace, ma la spada. E dunque seminò non consenso, ma discordia. Tanto è vero che all’opinione entusiastica che su di lui espressero Ricci e Bernari si oppose quella, di segno esattamente opposto, manifestata da un altro intellettuale di spicco, Guglielmo Peirce. In vista del debutto, Mauro Gioia mi ha telefonato per chiedermi se ritenessi opportuno che si citasse l’opinione di Peirce. E io gli ho risposto che era non solo opportuno, ma addirittura doveroso. Perché questa è davvero una storia da raccontare.
Nel 1929 Peirce firmò, insieme con Ricci e Bernari (erano tutti e tre sui vent’anni), il manifesto di fondazione dell’UDA (Unione Distruttivisti Attivisti), che si basava su princìpi ferrei e irrinunciabili quali, per intenderci, «Non esiste un’arte rivoluzionaria e un’arte non rivoluzionaria: l’arte vera è sempre rivoluzionaria» e «La rivoluzione permanente in arte è l’unica condizione dell’opera d’arte». Come si vede, quel manifesto avrebbe potuto firmarlo benissimo anche Viviani. Ma che succede, poi? Guglielmo Peirce – pittore, giornalista, scrittore, aderente al Partito Comunista clandestino, arrestato per motivi politici e confinato a Ventotene, direttore della terza pagina de «l’Unità» dopo l’8 settembre del ’43 – uscì dal Partito e finì a scrivere su «Il Borghese». E su «Il Borghese», sotto il nudo e crudo titolo «Viviani», pubblicò nel 1955 un articolo in cui diceva fra l’altro: «Viviani, più che amico mio, era amico di un mio amico (il riferimento è a Paolo Ricci, n.d.r.). (…) questo mio amico caricava l’arte di Viviani d’inesistenti significati sociali: populisti e proletari. Ma accadeva che Viviani di tutto volesse parlare, fuorché di questo. Viviani avvertiva, per un suo istinto profondo, naturale (appunto: per un istinto popolare) che simili pericolose teorie e simili significati sovversivi applicati all’arte sua, se da un lato lo lusingavano intimamente, dall’altro gli rendevano più difficoltoso il “dialogo” con i burocrati di Roma».
Peirce, insomma, tentava di contrabbandare Viviani per un uomo d’ordine. Ma la verità è che quel «dialogo» risultava in tutto e per tutto impossibile. Ancora in «Ritorno a Viviani», Ricci scrive: «In Italia, ormai oppressa dal fascismo, era difficile che un messaggio umano di quella intensità potesse trovare comprensione. I temi di quelle commedie scottavano per la loro bruciante attualità drammatica (…). Viviani fu così relegato nei teatri di terz’ordine. Gli furono negate le “piazze” più importanti e per alcuni anni non riuscì ad avere un turno a Milano!».
Chiudo con un brano della lettera che Viviani mandò da Novara, il 28 settembre del 1937, all’«amatissimo amico Paolo»: «Scrivo a voi e mangio con Maria un po’ di panettone milanese. Come vedete siete proprio trattato alla buona, anzi alla caro perché entrate tra le nostre cose gustose e semplici; è così che trovo modo di fare della poesia purissima scrivendo ad un amico poeta». Viviani – pur assediato dalla cecità e dai tradimenti di troppi – non smise mai di tener saldo il rapporto fra l’arte e la vita. Fu questa la sua grazia, questa la sua maledizione, questa la sua grandezza.

                                                                                                                                         Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 16/9/2020)

Questa voce è stata pubblicata in Commenti. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *