Bernhard anestetizzato. Gli si fa inalare la fiducia nel teatro

Sandro Lombardi in un momento di «Antichi Maestri», dato  al Napoli Teatro Festival Italia (la foto è di Luca Manfrini)

Sandro Lombardi in un momento di «Antichi Maestri», dato al Napoli Teatro Festival Italia
(la foto è di Luca Manfrini)

NAPOLI – Ciò che colloca Thomas Bernhard fra i più importanti (e importanti davvero) scrittori contemporanei è il fatto che tutti i suoi testi, teatrali o narrativi che siano, non costituiscono altro che varianti rispetto a due temi centrali, fissi e onnivori: la circolarità coatta dell’esistenza, che soltanto la morte può spezzare, e la vita sentita unicamente come abitudine e, peggio, fardello tanto rifiutato quanto inevitabile; e il motivo per cui tale strenua fedeltà a quei due temi attribuisce a Bernhard un posto preminente nell’ambito della letteratura novecentesca è che essi non si limitano ad esserne l’oggetto, ma, puramente e semplicemente, diventano i testi.
Voglio dire che la struttura e l’impianto formale dei singoli testi dell’autore austriaco coincidono perfettamente con la variante di volta in volta messa in campo rispetto ai temi citati. E ne fornisce un’ulteriore dimostrazione il romanzo «Antichi Maestri», presentato al Napoli Teatro Festival Italia, in un adattamento di Fabrizio Sinisi, dalla Compagnia Lombardi-Tiezzi e dall’Associazione Teatrale Pistoiese.
Si è soliti considerare «Antichi Maestri» come il capitolo conclusivo di un’ideale «trilogia delle arti», dedicato alla pittura e alla scultura e preceduto nel 1983 da «Il soccombente», dedicato alla musica, e nel 1984 da «A colpi d’ascia», dedicato al teatro. Ma siccome uscì nel 1985, appena quattro anni prima della scomparsa di Bernhard, è lecito considerarlo, piuttosto, come una sorta di testamento. E a questa ipotesi conduce, d’altronde, l’agghiacciante constatazione (dettata, vien fatto di pensare, addirittura dal desiderio oltre che dal presentimento della morte) messa in bocca a quel Reger, il personaggio principale del romanzo, che in tutta evidenza è l’alter ego dell’autore: «[…] per un essere umano d’intelletto e per un essere umano sensibile come me ben presto il mondo e l’umanità non saranno più sopportabili. […] Oggi questo mondo e l’umanità hanno raggiunto un tale grado di ottusità che un essere umano come me non se li può più permettere, un essere umano come me non può continuare a vivere con un mondo simile, un essere umano come me e una simile umanità non possono seguitare a coesistere».

Thomas Bernhard

Thomas Bernhard

Reger, che da trentaquattro anni scrive raffinate critiche musicali per il «Times», da oltre trenta, un giorno sì e un giorno no, escluso il lunedì, si reca al Kunsthistorisches Museum di Vienna e si siede sempre sulla stessa panca, nella Sala Bordone, a guardare sempre lo stesso quadro, l’«Uomo dalla barba bianca» di Tintoretto. E dunque, risulta oltremodo evidente che Reger è un equivalente di Caribaldi, il direttore di un piccolo circo protagonista de «La forza dell’abitudine», uno dei più rilevanti e frequentati testi teatrali di Bernhard.
Com’è noto, Caribaldi impone a se stesso e ai suoi compagni (il pagliaccio, il giocoliere, il domatore e la funambola) di provare continuamente il «Quintetto della trota» di Schubert. Ma ormai provano (anzi, provano a provare) da ventidue anni, e quel brano non sono ancora riusciti ad eseguirlo. Loro, tuttavia, continuano a provare, allo stesso modo che Reger continua a guardare l’«Uomo dalla barba bianca» di Tintoretto. Perché quell’«abitudine» traduce esattamente l’atteggiamento richiamato nella celebre battuta di Caribaldi che, peraltro, è l’autentica battuta-chiave dell’intera opera di Bernhard: «Noi non vogliamo la vita, eppure la si deve vivere». E in proposito, del resto, si rivela del tutto significante la corrispondenza fra la battuta di Caribaldi e la seguente osservazione di Reger: «[…] l’arte nel suo insieme non è altro […] che un’arte di sopravvivere, questo fatto non dobbiamo mai perderlo di vista, l’arte, insomma, è il tentativo reiterato, che commuove persino l’intelligenza, di sbrogliarsela in questo mondo e nelle sue avversità, cosa che, come sappiamo, è possibile solo facendo ripetutamente uso della menzogna e della falsità, dell’ipocrisia e dell’autoinganno».
Ugualmente, il fatto che il testo de «La forza dell’abitudine» sia fittamente tramato di locuzioni, e soprattutto di singole parole, che ininterrottamente ricorrono dall’inizio alla fine corrisponde in maniera eclatante al fatto che quello di «Antichi Maestri» è scritto senza mai un a capo. 179 pagine – nell’edizione Adelphi del 2019, con la traduzione di Anna Ruchat, a cui rimanda lo spettacolo in questione – senza, ripeto, nemmeno un a capo. Il che costituisce, inequivocabilmente, la metafora di un’«immobilità» esistenziale che conduce, per l’appunto, al carattere di testamento a cui ho accennato: non a caso, con «Antichi Maestri» Bernhard mette in campo, insieme con l’analisi riferita alla pittura e alla scultura, anche un riepilogo di quanto scritto in precedenza riguardo alla musica e al teatro.

Da sinistra, Martino D'Amico, Alessandro Burzotta e Sandro Lombardi in un altro momento dello spettacolo (la foto è di Salvatore Pastore)

Da sinistra, Martino D’Amico, Alessandro Burzotta e Sandro Lombardi in un altro momento dello spettacolo
(la foto è di Salvatore Pastore)

Ma – e vengo, così, allo spettacolo in sé – l’adattamento di Sinisi appare, più che discutibile, addirittura inammissibile. Perché – a parte il fatto che la trasformazione in personaggi teatrali di Reger, di Atzbacher (colui che considera Reger il suo «padre spirituale» e nel romanzo ne riferisce le parole) e di Irrsigler (il custode del Museo prezzolato da Reger perché gli garantisca l’uso esclusivo della panca di fronte all’«Uomo dalla barba bianca» di Tintoretto) implica l’intervento di un’azione che cancella la predetta «immobilità» – pesano in misura insopportabile le omissioni e le manipolazioni rispetto ai contenuti del testo originale.
Mi limito, in proposito, all’esempio più indicativo. Viene completamente eliminata la citata constatazione di Bernhard circa l’incompatibilità fra sé e il mondo di oggi. E contemporaneamente viene modificato il finale, perseguendo uno scopo consolatorio che, ovviamente, è quanto di più lontano da Bernhard si possa immaginare.
Il finale di Bernhard parla del fatto che, inopinatamente, Reger compra due biglietti per il Burgtheater – da lui sempre detestato, così come, dichiara, non c’è «davvero niente che detesti di più dell’arte drammatica» (la frase tra virgolette appare scritta in corsivo) – e invita Atzbacher ad andarvi con lui a vedere «La brocca rotta». Reger definisce questa sua trovata una «perversa follia». E dal canto suo Atzbacher, dopo essere andato effettivamente a vederlo, osserva: «Lo spettacolo era tremendo».
Sono le quattro ultime parole del romanzo. E Sinisi, sì, le mantiene, ma le anticipa a conclusione di un passo in cui non compare più la frase «non c’è davvero niente che detesti di più dell’arte drammatica». Di conseguenza, il finale dello spettacolo diventa il passo seguente rivolto da Reger ad Atzbacher: «Ah, grazie alla musica salvarsi ogni giorno di nuovo, grazie al teatro tirarsi fuori da tutte le nefandezze e le cose disgustose, è questo il trucco, ritrovare ogni giorno la salvezza grazie al teatro, ridiventare ogni giorno, di primo mattino, un vero essere umano che pensa e sente, mi capisce? Ma sì, l’arte, la musica, il teatro, anche se li malediciamo e se a volte ci sembra che in realtà non valgano un accidente: anche se osserviamo, qui, questi cosiddetti Antichi Maestri, che sempre più col passare degli anni ci sembrano senza senso e senza scopo, malgrado tutto non c’è nient’altro che possa salvare la gente come noi se non proprio quest’arte maledetta e dannata, e spesso funesta e disgustosa da far vomitare».
È la riscrittura del passo di Bernhard che suona fra l’altro: «Grazie alla musica salvarsi ogni giorno di nuovo, tirarsi fuori da tutte le nefandezze e le cose disgustose, è questo il trucco, ritrovare ogni giorno la salvezza grazie alla musica». Il teatro non viene neppure nominato. Del teatro Bernhard dirà poi, sempre ad Atzbacher: «[…] se lei va a teatro, le verrà addirittura il voltastomaco tanto è ridicolo e penoso e kitsch quello che vede. Qualunque cosa recitino e comunque la recitino, le verrà il voltastomaco. Se recitano qualcosa di classico le verrà il voltastomaco, se recitano qualcosa di popolare le verrà il voltastomaco. E cosa sono tutte queste opere teatrali classiche e moderne, queste cosiddette opere sublimi o queste opere popolari, che cosa sono se non buffonate teatrali e rappresentazioni penose e kitsch».

Ancora una scena dello spettacolo, con Martino D'Amico (a sinistra) e Sandro Lombardi (a destra) (la foto è di Salvatore Pastore)

Ancora una scena dello spettacolo, con Martino D’Amico (a sinistra) e Sandro Lombardi (a destra)
(la foto è di Salvatore Pastore)

Al netto del nichilismo e del furore iconoclastico di Bernhard (dettati, comunque, da un eroico rifiuto di qualsiasi illusione, ingenua o finta che sia), non è difficile essere d’accordo, se pensiamo al teatro che, salvo rarissime eccezioni, si faceva prima del coronavirus e che, temo, si continuerà a fare anche dopo. Ma per Sinisi si trattava di barricarsi, per l’ennesima volta, nella mai troppo vituperata mistica del teatro.
Mi dispiace, mi dispiace davvero che a un’operazione del genere si siano prestati due teatranti come Federico Tiezzi e Sandro Lombardi, per i quali nutro stima e affetto sin dalla sera lontanissima in cui vidi, al Cabaret Voltaire di Torino, lo sconvolgente «Presagi del vampiro» dato dalla loro compagnia, che allora si chiamava «Il Carrozzone». E non riesco a capire come abbiano potuto tradire in maniera tanto plateale Bernhard dopo aver realizzato (lo vedemmo al Nuovo nel gennaio 2018) un allestimento de «L’apparenza inganna» che resta non solo fra le migliori messinscene di testi del grande austriaco, ma anche, in assoluto, fra i migliori spettacoli degli ultimi anni.
Tiezzi, in quanto regista, ha dichiarato di aver costruito l’allestimento «con l’obiettivo che la confessione testamentaria di Bernhard arrivi al pubblico come un atto di fiducia nei confronti del teatro». Il problema, però, è che – con «Antichi Maestri» e, di più, con l’intera sua opera – Bernhard ha espresso, nei confronti dell’arte in generale e del teatro in particolare, una sfiducia totale e irredimibile, considerando l’una e l’altro un alibi per sfuggire alla realtà, ovvero, ripeto, alla vita sentita come un fardello. Lo dimostrano in maniera inoppugnabile le citazioni di cui sopra.
Trasformare Bernhard in uno speranzoso «supporter» dell’arte e del teatro come risarcimento dell’insignificanza e del dolore procurati dall’esistere significa anestetizzarlo. E tanto, in effetti, fa questo spettacolo: peraltro con qualche marcata contraddizione, visto, poniamo, che allo straniamento costituito dall’intreccio geometrico di listelli luminosi che imprigiona l’azione e dagl’incongrui movimenti e gesti meccanici reiteratamente attribuiti a Irrsigler corrisponde un dialogo fra Reger e Atzbacher che sembra preso pari pari da una tipica «conversation play» inglese. Ma, s’intende, quest’ultimo punto è la diretta conseguenza dell’assunto adottato dalla messinscena di cui parliamo. Bisognava conferire al dialogo fra Reger e Atzbacher il tono ironico e amabile necessario, insieme, a rendere gradevole e «digeribile» l’urticante prosa di Bernhard e meno ostici gli argomenti estremi e «ultimativi» di cui quei personaggi sono portatori. Né si può accogliere se non sotto specie di pleonasmo l’invenzione culminante della regia che mostra Irrsigler nell’atto di togliere dalla parete tutti i quadri degli aborriti «Antichi Maestri», salvo, ovviamente, l’«Uomo dalla barba bianca», e di ricoprirli, assistito da Atzbacher, con un panno bianco.
No, Thomas Bernhard non è questo. Dov’è, qui, la sua lucidissima ferocia? Visto che in «Antichi Maestri» si parla di pittura, e visto che Tiezzi è un esperto di storia dell’arte, per dire chi è veramente Thomas Bernhard utilizzo lo scritto di Ottone Rosai intitolato «L’Essenziale» e apparso ne «Il Frontespizio»: «Sorgerà un artista come una brutta giornata. Una di quelle giornate d’inverno tutte nere, fredde, pungenti, dalla pioggia appuntita e frenetica che ti sbatte in faccia e sul corpo a cenciate quasi fossero lanci a manciate di pruni. Di dolore avrà fatta la vita, continuo, infinito, per non poter giungere a dare con la sua opera la pace né a sé né agli altri. Non conoscerà compromessi: tra i suoi atti e la sua arte tutto sarà coerenza. La croce addossatasi la porterà non come condanna, ma quale simbolo di fede. Unico tormento: l’arte; sola preoccupazione: donare. Questi e non altri i principii di un vero artista e di ogni essere che sia a rappresentare tra gli uomini un loro culmine di bellezza».
Si capisce, a questo punto, che in un contesto del genere risulta sprecata (per dir meglio, sterile) anche la straordinaria bravura di Sandro Lombardi (Reger), affiancato dai corretti Martino D’Amico e Alessandro Burzotta nei ruoli, rispettivamente, di Atzbacher e di Irrsigler.
Un’ultima cosa. Tiezzi ha ricordato che fu Franco Quadri ad avvicinarlo a Bernhard e ad «Antichi Maestri» in specie. Ed ha aggiunto che a Quadri, che l’anno prossimo verrà celebrato a dieci anni dalla scomparsa, è idealmente dedicato questo spettacolo. Ma io – che con il caro, indimenticabile Franco ho strettamente collaborato (pubblicai con la sua preziosa Ubulibri vari scritti di un certo rilievo, dal saggio sulla drammaturgia cosiddetta post-eduardiana «Il rito, l’esilio e la peste» all’introduzione al «Teatro» di Annibale Ruccello, quel teatro che riportammo alla luce dopo vent’anni ch’era scomparso dalle librerie) – mi permetto di pensare che lui con questo spettacolo non sarebbe stato d’accordo.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

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