Le mille voci della violenza omofoba

Un momento de «Il seme della violenza», presentato dal Teatro dell'Elfo al Napoli Teatro Festival Italia (le foto che illustrano questo articolo sono di Laila Pozzo)

Un momento de «Il seme della violenza», presentato dal Teatro dell’Elfo al Napoli Teatro Festival Italia
(le foto che illustrano questo articolo sono di Laila Pozzo)

NAPOLI – Dice Marge Murray, madre dell’agente di polizia Reggie Fluty: «Per quanto riguarda la questione gay, non me ne frega niente che siano di una sponda o dell’altra, basta che non vengano a darmi fastidio. […] Laramie è “vivi e lascia vivere”». Ma una delle valutazioni degli studenti di Catherine Connolly, una professoressa universitaria lesbica che ha vinto praticamente tutti i premi all’insegnamento che avrebbe potuto vincere, suona: «Le piacciono le donne. E si vede. Fa schifo». E quando le viene in mente d’indossare il velo, a Zubaida Ula, una ventenne musulmana che vive a Laramie da quando aveva quattro anni, la gente comincia a chiedere: «Perché ti metti quella roba in testa?».
Allo stesso modo, se Jeffrey Lockwood, molto impegnato nella vita politica locale, dichiara: «La mia speranza segreta era che venissero da fuori, perché così, ovviamente, si poteva almeno mettere della distanza: noi non cresciamo ragazzi come quelli, qui», un altro ragazzo manda al presidente dell’Università del Wyoming, Philip Dubois, l’e-mail seguente: «Tu e le persone etero di Laramie e del Wyoming siete colpevoli del pestaggio di Matthew Shepard tanto quanto i tedeschi che hanno guardato da un’altra parte sono colpevoli della morte degli ebrei, degli zingari e degli omosessuali. Avete insegnato ai vostri figli etero a odiare i loro fratelli e sorelle gay e lesbiche; fino a quando non riconoscerete che il pestaggio di Matthew Shepard non è un fatto casuale, non è solo l’opera di due pazzi, fino a quel momento voi avrete il sangue di Matthew sulle vostre mani». Mentre Sherry Johnson, assistente amministrativa nella stessa Università, osserva: «Ho la sensazione che la stampa lo stia dipingendo come un santo. E stia cercando di trasformarlo in un martire. Ma io non penso che lo fosse, non penso proprio che fosse così puro. Cioè, non lo conoscevo, ma… ci sono così tante cose di lui che ho scoperto che proprio… Lo sapete, o no, com’era? Lo sapete che ha diffuso l’Aids? Lo sapete che era un alcoolizzato?».
Ecco, credo che bastino e avanzino, queste citazioni, a dar conto dell’affresco disegnato da «The Laramie Project», il testo di Moisés Kaufman e della sua compagnia, il Tectonic Theater Project, che il Teatro dell’Elfo ha presentato (la traduzione è di Emanuele Aldrovandi) nel Cortile d’Onore di Palazzo Reale nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia.

Un altro momento dello spettacolo, diretto da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia

Un altro momento dello spettacolo, diretto da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia

Si tratta di un testo ricavato dalle interviste che l’autore e regista newyorkese di origine venezuelana e i suoi attori e collaboratori realizzarono personalmente sul posto circa la tragica fine di Matthew Shepard, lo studente gay che nella notte fra il 6 e il 7 ottobre 1998 venne derubato, torturato e ucciso, per l’appunto a Laramie, nel Wyoming, dai coetanei Aaron McKinney e Russell Henderson. E il fatto che il Teatro dell’Elfo abbia voluto premettere a quello originale un secondo titolo, giusto «Il seme della violenza», sta a significare l’intento di sostenere che proprio nello scontro delle opinioni di cui sopra, inesausto ma sterile, va ricercata la radice prima dell’orribile delitto in questione.
Il «format» è lo stesso di «Atti osceni. I tre processi di Oscar Wilde», il testo, sempre di Kaufman, che ancora il Teatro dell’Elfo presentò al Bellini nel febbraio scorso. E identici risultano i pregi e i difetti che accomunano i due copioni: riassumibili i primi nell’apprezzabile aspetto divulgativo del tessuto drammaturgico e i secondi nel preponderante abbandonarsi alla nudità e alla schematicità cronachistiche, tale da lasciare piuttosto in ombra la valenza ideologico-politica della vicenda evocata. Lo dimostra a sufficienza il passo, non a caso collocato in posizione fortemente icastica, alla fine, che vede Dennis Shepard, il padre di Matthew, accordare a McKinney il salvacondotto per la vita, una sorta di cristiana assoluzione suggerita dalla certezza che, comunque, il figlio non è morto solo, ma avendo accanto gli amici di sempre: il cielo notturno con la luna e le stelle, lo splendore del giorno, il profumo dei pini nei campi innevati, il vento e, naturalmente, Dio.
Del resto, a un buonismo di fondo e a un didascalismo alquanto retorico indulge anche la regia di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia: a cominciare dal fatto che l’azione è ambientata in un’aula scolastica, con gl’interpreti (ciascuno in più ruoli) che siedono nei banchi mentre sui due schermi collocati in alto, sul fondale, scorrono in funzione vagamente straniante, ma in forma per l’appunto scolastica, parole relative all’ufficialità dell’episodio narrato, date, nomi dei protagonisti, immagini di nuvole e di autostrade, cartoline di Laramie e del Wyoming, disegni di giornaletti gay e, naturalmente, particolari della faccia martoriata di Matthew Shepard.
Traspare, in altri termini, la tentazione del «manifesto» (vedi, per esempio, la davvero troppo facile caricatura del governatore Geringer con tanto di «stetson» calcato in testa), accoppiata con un’ostentata riaffermazione di fede nella presunta – ormai molto presunta – capacità maieutica del teatro. Ed è in un simile quadro che, per concludere, va collocata e valutata la pur impegnata (e, sotto il profilo tecnico, ineccepibile) prova degli attori in campo: lo stesso Bruni, Margherita Di Rauso, Giuseppe Lanino, Umberto Petranca, Marta Pizzigallo, Luciano Scarpa, Marcela Serli e Francesca Turrini.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

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