È di scena l’autore tradito

Sandro Lombardi, protagonista di «Antichi Maestri>» di Bernhard, in programma al Napoli Teatro Festival Italia

Sandro Lombardi, protagonista di «Antichi Maestri>» di Bernhard, in programma al Napoli Teatro Festival Italia

NAPOLI – Riporto il commento pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Come forse qualcuno ricorderà, il 5 scorso rilevai (non sulla base di mie farneticazioni, ma testo di Vargas Llosa alla mano) quanto l’allestimento de «La Chunga» presentato nel cortile del Maschio Angioino fosse infedele all’autore. Ed ecco che nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia la Compagnia Lombardi-Tiezzi proporrà, a firma di Fabrizio Sinisi, un adattamento di «Antichi Maestri» che capovolge l’assunto del romanzo di Bernhard. Qui di seguito un’analisi comparata dell’originale e della riscrittura.
Nel catalogo del Festival si legge che «Antichi Maestri» è il capitolo conclusivo di un’ideale «trilogia delle arti», dedicato alla pittura e alla scultura e preceduto nel 1983 da «Il soccombente», dedicato alla musica, e nel 1984 da «A colpi d’ascia», dedicato al teatro. Ma siccome uscì nel 1985, appena quattro anni prima della scomparsa di Bernhard, è lecito considerarlo, piuttosto, come una sorta di testamento. E a questa ipotesi conduce, d’altronde, l’agghiacciante constatazione (dettata, vien fatto di pensare, addirittura dal desiderio oltre che dal presentimento della morte) messa in bocca a quel Reger, il personaggio principale del romanzo, che in tutta evidenza è l’alter ego dell’autore: «(…) per un essere umano d’intelletto e per un essere umano sensibile come me ben presto il mondo e l’umanità non saranno più sopportabili. (…) Oggi questo mondo e l’umanità hanno raggiunto un tale grado di ottusità che un essere umano come me non se li può più permettere, un essere umano come me non può continuare a vivere con un mondo simile, un essere umano come me e una simile umanità non possono seguitare a coesistere».
Reger, che da trentaquattro anni scrive raffinate critiche musicali per il «Times», da oltre trenta, un giorno sì e un giorno no, escluso il lunedì, si reca al Kunsthistorisches Museum di Vienna e si siede sempre sulla stessa panca, nella Sala Bordone, a guardare sempre lo stesso quadro, l’«Uomo dalla barba bianca» di Tintoretto. E dunque, risulta oltremodo evidente che Reger è un equivalente di Caribaldi, il direttore di un piccolo circo protagonista de «La forza dell’abitudine», uno dei più rilevanti e frequentati tra i testi teatrali di Bernhard.

Thomas Bernhard

Thomas Bernhard

Com’è noto, Caribaldi impone a se stesso e ai suoi compagni (il pagliaccio, il giocoliere, il domatore e la funambola) di provare continuamente il «Quintetto della trota» di Schubert. Ma ormai provano (anzi, provano a provare) da ventidue anni, e quel brano non sono ancora riusciti ad eseguirlo. Loro, tuttavia, continuano a provare, allo stesso modo che Reger continua a guardare l’«Uomo dalla barba bianca» di Tintoretto. Perché quell’«abitudine» traduce esattamente l’atteggiamento richiamato nella celebre battuta di Caribaldi che, peraltro, è l’autentica battuta-chiave dell’intera opera di Bernhard: «Noi non vogliamo la vita, eppure la si deve vivere». E in proposito, del resto, si rivela del tutto significante la corrispondenza fra la battuta di Caribaldi e la seguente osservazione di Reger: «(…) l’arte nel suo insieme non è altro (…) che un’arte di sopravvivere, questo fatto non dobbiamo mai perderlo di vista, l’arte, insomma, è il tentativo reiterato, che commuove persino l’intelligenza, di sbrogliarsela in questo mondo e nelle sue avversità, cosa che, come sappiamo, è possibile solo facendo ripetutamente uso della menzogna e della falsità, dell’ipocrisia e dell’autoinganno».
Ugualmente, il fatto che il testo de «La forza dell’abitudine» sia fittamente tramato di locuzioni, e soprattutto di singole parole, che ininterrottamente ricorrono dall’inizio alla fine corrisponde in maniera eclatante al fatto che quello di «Antichi Maestri» è scritto senza mai un a capo. 179 pagine – nell’edizione Adelphi del 2019, con la traduzione di Anna Ruchat, su cui si basa l’adattamento di Sinisi – senza, ripeto, nemmeno un a capo. Il che costituisce, inequivocabilmente, la metafora di un’«immobilità» esistenziale che conduce, per l’appunto, al carattere di testamento a cui ho accennato: non a caso, con «Antichi Maestri» Bernhard mette in campo, insieme con l’analisi riferita alla pittura e alla scultura, anche un riepilogo di quanto scritto in precedenza riguardo alla musica e al teatro.
Ma – a parte il fatto che la trasformazione in personaggi teatrali di Reger, di Atzbacher (colui che considera Reger il suo «padre spirituale» e nel romanzo ne riferisce le parole) e di Irrsigler (il custode del Museo prezzolato da Reger perché gli garantisca l’uso esclusivo della panca di fronte all’«Uomo dalla barba bianca» di Tintoretto) implica l’intervento di un’azione che cancella la predetta «immobilità» – sull’adattamento di Sinisi pesano, rispetto ai contenuti del testo originale, omissioni e manipolazioni francamente ingiustificabili.

Fabrizio Sinisi (la foto è di Luca Fiore)

Fabrizio Sinisi
(la foto è di Luca Fiore)

Mi limito, in proposito, all’esempio più indicativo. Viene completamente eliminata la citata constatazione di Bernhard circa l’incompatibilità fra sé e il mondo di oggi. E contemporaneamente viene modificato il finale, perseguendo uno scopo consolatorio che, ovviamente, è quanto di più lontano da Bernhard si possa immaginare.
Il finale di Bernhard parla del fatto che, inopinatamente, Reger compra due biglietti per il Burgtheater – da lui sempre detestato, così come, dichiara, non c’è «davvero niente che detesti di più dell’arte drammatica» (la frase tra virgolette appare scritta in corsivo) – e invita Atzbacher ad andarvi con lui a vedere «La brocca rotta». Reger definisce questa sua trovata una «perversa follia». E dal canto suo Atzbacher, dopo essere andato effettivamente a vederlo, osserva: «Lo spettacolo era tremendo».
Sono le quattro ultime parole del romanzo. E Sinisi, sì, le mantiene, ma le anticipa a conclusione di un passo in cui non compare più la frase «non c’è davvero niente che detesti di più dell’arte drammatica». Di conseguenza, il finale dello spettacolo diventa il passo seguente rivolto da Reger ad Atzbacher: «Ah, grazie alla musica salvarsi ogni giorno di nuovo, grazie al teatro tirarsi fuori da tutte le nefandezze e le cose disgustose, è questo il trucco, ritrovare ogni giorno la salvezza grazie al teatro, ridiventare ogni giorno, di primo mattino, un vero essere umano che pensa e sente, mi capisce? Ma sì, l’arte, la musica, il teatro, anche se li malediciamo e se a volte ci sembra che in realtà non valgano un accidente: anche se osserviamo, qui, questi cosiddetti Antichi Maestri, che sempre più col passare degli anni ci sembrano senza senso e senza scopo, malgrado tutto non c’è nient’altro che possa salvare la gente come noi se non proprio quest’arte maledetta e dannata, e spesso funesta e disgustosa da far vomitare».
È la riscrittura del passo di Bernhard che suona fra l’altro: «Grazie alla musica salvarsi ogni giorno di nuovo, tirarsi fuori da tutte le nefandezze e le cose disgustose, è questo il trucco, ritrovare ogni giorno la salvezza grazie alla musica». Il teatro non viene neppure nominato. Del teatro Bernhard dirà poi, sempre ad Atzbacher: «[…] se lei va a teatro, le verrà addirittura il voltastomaco tanto è ridicolo e penoso e kitsch quello che vede. Qualunque cosa recitino e comunque la recitino, le verrà il voltastomaco. Se recitano qualcosa di classico le verrà il voltastomaco, se recitano qualcosa di popolare le verrà il voltastomaco. E cosa sono tutte queste opere teatrali classiche e moderne, queste cosiddette opere sublimi o queste opere popolari, che cosa sono se non buffonate teatrali e rappresentazioni penose e kitsch».
Certo, possiamo non essere d’accordo col nichilismo e il furore iconoclastico di Bernhard (dettati, comunque, da un eroico rifiuto di qualsiasi illusione, ingenua o finta che sia). Ma allora, perché portare in scena «Antichi Maestri», utilizzandolo come pretesto per barricarsi, ancora una volta, nella mai troppo vituperata mistica del teatro?

                                                                                                                                          Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 16/7/2020)

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