Genitori e figli accomunati dal cinismo

Teresa Saponangelo e Ivan Castiglione in «Plastilina», dato al Napoli Teatro Festival Italia

Teresa Saponangelo e Ivan Castiglione in «Plastilina», in scena al Napoli Teatro Festival Italia

NAPOLI – «Si chiamava Maurizio Perez. Aveva 53 anni e da sedici anni viveva per strada. Parlava da solo e durante il giorno stava seduto su una panchina insieme ad altri indigenti. Non è mai voluto andare in un centro di aiuto. Il giudice non ha permesso la tumulazione. Il cadavere si trova in una cella frigorifera dell’Istituto di Anatomia Forense. Era stato portato all’ospedale Loreto Mare dove è morto 32 ore dopo. Causa della morte? Ustioni su più dell’80 per cento del corpo: collo, cranio, torace, schiena, gambe, glutei, genitali. Ogni mattina andava in un bar del quartiere e il proprietario gli offriva la colazione».
Finisce così «Plastilina», l’atto unico di Marta Buchaca che il Nuovo Teatro Sanità presenta ancora oggi, a Palazzo Fondi, nell’ambito di «Rua Catalana», la sezione del Napoli Teatro Festival Italia curata da Enrico Ianniello e dedicata alla drammaturgia contemporanea di Barcellona. E quel finale, conciso e freddo come un trafiletto di cronaca confinato in una qualsiasi pagina interna del giornale, costituisce la migliore sintesi delle caratteristiche formali e dei pregi del testo in questione, tradotto e riambientato a Napoli dallo stesso Ianniello.
Siamo di fronte a un’impietosa riflessione, indotta da un episodio realmente accaduto, sul vuoto morale, sulla pochezza culturale, sulla superficialità comportamentale e sul cinismo sociale che oggi accomunano i genitori e i figli, senz’alcuna delle distinzioni che, in teoria, dovrebbero essere stabilite dallo scarto generazionale e dai ruoli all’interno della famiglia.
L’autrice mette in campo un padre e una madre generici, il loro figlio Michele e i tre amici di quest’ultimo, Paolo, Lorenzo e Lali, una ragazza che non disdegna di scopare indifferentemente con l’uno o con l’altro. Il loro unico «specchio» è uno schermo, quello del televisore per i genitori e quello dello smartphone per i ragazzi. E la battuta-chiave diventa allora ciò che il padre dice alla moglie nell’ottava scena: «Mi piaceva l’idea che mio figlio potesse uscire in televisione, che la gente lo conoscesse, che fosse famoso. E adesso nostro figlio è famoso, esce nei telegiornali, tutti parlano di lui. Non avevo immaginato come avrei reagito se mio figlio avesse ammazzato una persona. Non avevo pensato cosa avrei detto a mio figlio, cosa avrei detto a te… Non avevo fatto le prove. E sai che? Che è stata una stronzata, non aver fatto le prove».

Da sinistra, Teresa Saponangelo, Mariano Coletti e Ivan Castiglione  in un altro momento dello spettacolo

Da sinistra, Teresa Saponangelo, Mariano Coletti e Ivan Castiglione in un altro momento dello spettacolo

Capite? Quel padre s’è ridotto a immaginare la vita come le prove di uno show televisivo. Ed ora che lo show è andato in onda senza che lui ne abbia saputo e potuto determinare gli aspetti e l’andamento (Michele finisce in carcere perché, insieme con gli amici, ha dato fuoco al barbone di cui sopra), non si riesce a trovare altro rimedio che quello messo in atto dalla madre: va a buttare il televisore nel cassonetto dei rifiuti che si trova a pochi metri dal portone di casa.
Tutto questo, poi, si riassume e si esalta nell’idea centrale, davvero eccellente, che regge il testo: lo svolgimento della trama non procede in maniera lineare, ma per continui salti all’indietro e in avanti, il che porta alla conseguenza che i personaggi della Buchaca risultano prigionieri di un eterno presente, privi tanto dei ricordi quanto delle speranze. Resta solo la descrizione, per l’appunto da sceneggiato televisivo, che fa la madre della nascita di Michele: «Il parto è stato molto doloroso, non riusciva a uscire. Io spingevo, spingevo e lui non usciva (…) Alla fine ho spinto forte ed è uscito. Me l’hanno messo sulla pancia, ancora pieno di sangue, e ho giurato a me stessa che lo avrei amato sempre. Qualunque cosa succedeva».
Venendo adesso allo spettacolo in sé, constato che il regista, Mario Gelardi, ha dato luogo a un allestimento piuttosto contraddittorio sotto tutti gli aspetti. Il distanziamento fra gli attori, poniamo, talvolta viene rispettato fino all’esagerazione (vedi il colloquio in carcere fra il padre e Michele, piazzati su due sgabelli negli angoli opposti dello spazio della rappresentazione) e talaltra viene completamente ignorato (vedi gli abbracci fra i genitori e i baci sulla bocca dispensati da Lali). Allo stesso modo, si scontrano un impianto scenografico (firmato anch’esso da Gelardi) che si volge all’astrazione geometrica e una prova degl’interpreti – Ivan Castiglione (il padre), Teresa Saponangelo (la madre), Arianna Iodice (Lali), Mariano Coletti (Michele), Vincenzo Antonucci (Paolo) e Giampiero De Concilio (Lorenzo) – che punta sul solito bozzetto naturalistico di maniera. E infine, il regista interviene sul testo della Buchaca e sull’adattamento di Ianniello cancellando, per esempio, la battuta del padre circa le «prove», sostituendo «altri indigenti» con «altri barboni» e inventandosi al termine la battuta di Michele: «Maurizio Perez è morto perché io gli ho dato fuoco».
Gelardi, in breve, elimina il necessario e aggiunge il superfluo. Il che, inopinatamente, nei confronti del pubblico manifesta, insieme, una sadica voglia d’impedirgli la comprensione del testo e una marcata sfiducia nella sua effettiva capacità di arrivarci da solo.

                                                                                                                                         Enrico Fiore

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