Herlitzka, faccia da storie

Roberto Herlitzka in un momento di «Ex Otello» (le foto che illustrano questo articolo sono di Tommaso Le Pera)

Roberto Herlitzka in un momento di «Ex Otello»
(le foto che illustrano questo articolo sono di Tommaso Le Pera)

NAPOLI – Riporto il ritratto di Roberto Herlitzka pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Un giorno, quando Gary Cooper era ancora un ragazzo, la madre lo sorprese immobile in un angolo della casa, lo sguardo perso nel vuoto. Gli chiese a che cosa stesse pensando, e lui rispose: «Assolutamente a niente, mamma. Io non penso». E fu così che la madre di Gary Cooper capì che il figlio sarebbe diventato un grande attore.
È l’«a parte» che spesso Vittorio Gassman infilava nei suoi recital (lo infilò, per esempio, in «Parole fedeli e infedeli») per bollare la stupidità di tanti dei suoi colleghi. Ma certissimamente il mattatore per antonomasia non avrebbe potuto scagliare quell’«a parte» contro Roberto Herlitzka: perché Roberto Herlitzka – oltre che essere un attore eccellente, tra i maggiori se non il maggiore di oggi – è soprattutto, per l’appunto, un attore che pensa, che irrinunciabilmente mette la tecnica al servizio di un progetto e di una strategia.
Ne costituisce un’ulteriore ed esaustiva dimostrazione la mostra che a Palazzo Fondi, nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia, dedica a Herlitzka colui che è tra i più importanti fotografi di scena contemporanei, Tommaso Le Pera. Le Pera scrive nel catalogo: «Le pieghe del suo viso (che non sono rughe), l’una diversa dall’altra, hanno per me un’attrazione fatale, e mi soffermo su di esse perché mi sembra che ognuna abbia una storia da raccontare». E non si può non essere d’accordo.
Prendiamo Shakespeare. Herlitzka è stato, poniamo, il superbo protagonista dell’allestimento di «Re Lear» diretto da Antonio Calenda. Ma ritengo che abbia dato il meglio di sé quando non si è limitato a interpretare un singolo personaggio del Bardo, bensì ha proposto, da solo, un’interpretazione dell’intera opera in cui quel personaggio compare. Penso ai recital «Ex Amleto» ed «Ex Otello», entrambi prodotti dal Teatro Segreto che è la compagnia di Ruggero Cappuccio, il direttore del Napoli Teatro Festival Italia. E vediamoli nell’ordine.
Ofelia definisce Amleto «lo specchio della moda» (atto III, scena I). Amleto osserva che il fine del teatro è porgere «uno specchio alla natura» (atto III, scena II). E ancora Amleto dice a Gertrude: «Non uscirete di qui prima che v’abbia messo davanti uno specchio in cui vi vedrete fino in fondo all’anima» (atto III, scena IV).
Sì, Amleto è proprio uno specchio: in quanto uomo, vi si riflettono – a turno o insieme – l’apparenza della società, la concretezza del mondo «tout court» e l’esame di coscienza individuale; e in quanto personaggio teatrale, introietta la sua consistenza letteraria, a cominciare dal racconto dello Spettro del padre (che, del resto, si chiamava Amleto come lui). Amleto «diventa» l’inquietudine dello Spettro, così come «diventa» il tratto distintivo e decisivo di tutti gli altri personaggi. E la stessa cosa faceva Roberto Herlitzka.
Il suo Amleto era solo, e pronunciava (tranne quelle del Becchino) solo le sue battute. Gli altri personaggi, non più che fantasmi, si materializzavano unicamente grazie al sapiente, e pure diafano, intreccio di sguardi e di gesti tessuto dall’interprete. Ed era l’operazione che, poi, Herlitzka affinò ulteriormente con l’«Ex Otello».
Un’idea splendida, e assolutamente fondata. Perché Amleto è il paradigma delle rovine – quelle di antiche fedi, per dirla con Durkheim – che costituiscono l’uomo sconfitto dell’età moderna. E quando Herlitzka raccattava da terra uno specchio, si trattava, di conseguenza, solo della cornice di uno specchio. Sicché, cacciandovi dentro la faccia, lui non solo vedeva noi spettatori invece che se stesso, ma inverava l’eterno mistero della maschera: che, metafora del nostro rapporto col mondo, nello stesso tempo guarda ed è guardata (dall’interno da chi la indossa e dall’esterno da chi la osserva).
Lo stesso avveniva con l’«Ex Otello». Con il sipario ancora chiuso, per tre volte risuonava nel buio la battuta di Lodovico che condanna Jago a una lunga tortura tale da straziarlo ma lasciandolo in vita. E a conti fatti, lo spettacolo era proprio quella lunga tortura: a partire dalla scena, la cella di un carcere con il proverbiale lettino dalla testiera di ferro e – attenzione – le pareti rivestite, appunto, di frammenti di specchio.

Roberto Herlitzka in un momento dell'«Edipo a Colono» di Ruggero Cappuccio

Roberto Herlitzka in un momento dell’«Edipo a Colono» di Ruggero Cappuccio

Dunque, l’operazione si agganciava a una tautologia non solo eclatante, ma riferita, con intelligenza e precisione, alle ragioni profonde, e addirittura fondanti, della celebre tragedia shakespeariana. Infatti, qui c’era un solo attore, Roberto Herlitzka, che – nei panni di Jago – interpretava anche tutti gli altri personaggi: i quali, però, venivano sempre filtrati attraverso la mente dello stesso Jago, giusto come se fossero tanti frammenti di specchio in cui lui si guardava, si analizzava e – quasi in una replica dell’eterna coazione a ripetere dei dannati danteschi – si autoflagellava e si dilaniava.
Infatti – e non a caso la stessa Desdemona lo definisce «parolaio» (atto II, scena I) – Jago, allo scopo di catturare gl’interlocutori oggetto delle sue trame, spinge la propria capacità di padroneggiare il linguaggio sino al punto d’identificarsi – per essere più convincente – con quello delle vittime prescelte. La prima delle quali, per l’appunto Otello, dovrà quindi constatare: «Perdio! Costui mi fa l’eco; come se nel suo pensiero nascondesse un mostro troppo orrendo per farlo vedere» (atto III, scena III). Ed è qui – ben al di là della trama, abbondantemente melodrammatica – la vera, moderna e geniale consistenza della tragedia di Shakespeare: Jago, per trasferire il «mostro» che ha creato nella mente e nell’animo del Moro, non trova di meglio che adottare, giusto, le parole dello stesso Otello.
Non era l’identica cosa che Herlitzka faceva interpretando il ruolo di un’ultranovantenne in «Lasciami andare, madre», la commedia che Lina Wertmüller trasse dall’omonimo libro autobiografico di Helga Schneider? Lui, Herlitzka, non interpretava una vecchia, ma letteralmente materializzava la quintessenza (o addirittura l’idea) della vecchiezza al femminile, con tutto l’inestricabile groviglio d’impuntature infantili, bugie, lamenti, orgoglio, debolezza, bisogno di tenerezza e soprassalti di crudeltà che ad essa è inevitabilmente legato. In altre parole, Herlitzka faceva quello che sempre un attore dovrebbe fare sul palcoscenico e che, invece, quasi mai oggi si vede fare: raggiungeva il massimo della concretezza con il massimo dell’astrazione, affidandosi – ciò ch’è, ineludibilmente, nella natura profonda del teatro – al simbolo piuttosto che all’opzione realistica.
Del resto, nessuno meglio di lui avrebbe potuto incarnare e trasmettere il senso alto di ciò che – nell’«Edipo a Colono» di Ruggero Cappuccio – accade dentro e intorno al fatidico personaggio sofocleo: nell’ambito della XXVII edizione della rassegna «Città Spettacolo» di Benevento, nel 2006, Herlitzka, muovendosi nell’inquietante paesaggio disegnato dai grandi cavalli neri che l’anno precedente Mimmo Paladino aveva approntato nell’Hortus Conclusus per le «Baccanti» di Euripide riscritte da Enzo Moscato, negava ogni lenocinio della parola, a tratti piegandola al canto così come piegava la follia alle ragioni della poesia.
Chiudo con il ricordo della dichiarazione che immancabilmente Roberto Herlitzka ha posto al termine delle telefonate con cui mi ringraziava per averlo elogiato: «Leggendo le sue recensioni mi sembra sempre di aver capito più di quanto ho capito effettivamente». Posso tranquillamente parafrasarla, quella dichiarazione: vedendo recitare Herlitzka, mi sembra sempre di veder recitare più di quanto abbia mai visto recitare effettivamente.

                                                                                                                                         Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 10/7/2020)

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