Festa di Montevergine con tarallucci e vino

Il primo atto si svolge nel piazzale del Santuario, il secondo in una trattoria all’aperto di Nola, il terzo nella camera da letto della casa napoletana di «’O sanguettaro». E proprio in questo risiede la straordinaria modernità de «La festa di Montevergine», senza dubbio uno dei capolavori di Viviani. Potremmo addirittura leggerlo secondo l’ottica dello strutturalismo.
Infatti, il progressivo e premeditato restringersi del campo d’azione corrisponde perfettamente all’altrettanto evidente e continuo abbassarsi del «livello» della vicenda narrata: giacché, se nel primo atto l’incontenibile trasporto di Don Rafele per la moglie di «’O vrennaiuolo (inquadrato sullo sfondo dell’antica e sanguigna fede dei pellegrini per la Madonna Nera) lasciava scorgere i tratti di una Passione e sinanche di un Destino forieri di tragedia, nel secondo quello stesso trasporto comincia a diluirsi nei ritmi pacati di una tresca qualsiasi e, nel terzo, finisce nientemeno ad annullarsi in un bonario accomodamento da vera e propria farsa piccolo-borghese. Don Rafele, rivolto alla moglie, dice: «E mo, jammuncenne ‘a casa, ca quanno è dimane penzarraggio pure a ffa’ pace cu ‘O vrennaiuolo… Gli affari innanzitutto; e tu ‘o ssaie!».
In breve, il tema di fondo qui portato alla ribalta da Viviani è lo scarto ineludibile e inesorabile fra il Mito e la Quotidianità, ovvero fra le «maschere» che prendono il sopravvento nella dimensione della festa (o dell’evasione che dir si voglia) e lo stillicidio estremamente riconoscibile dei pensieri e dei gesti minimi indotti dal ruolo sociale dell’individuo. E di conseguenza, nel portare in scena questa commedia bisognerebbe adottare una recitazione agganciata nel primo atto allo straniamento allusivo, nel secondo al bozzettismo realistico e nel terzo (in cui, difatti, fa capolino Feydeau) all’accelerazione da vaudeville.
Ma l’allestimento de «La festa di Montevergine» portato in scena al Sannazaro per la regia di Lara Sansone puntava soprattutto ad offrire allo spettatore un divertimento anodino e ad oltranza. Perché – se, poniamo, era dovuto a una deficienza tecnica (il volume della musica troppo alto rispetto alla voce dell’interprete) il fatto che non si sentissero molte delle parole della preghiera di «’O zuoppo», uno dei più intensi canti di Viviani – obbediva poi a una precisa scelta «ideologica» l’aggiunta al testo originale di gag e battute intese, per l’appunto, solo a strappare delle facili risate in più.
Vedi, tanto per fare appena due esempi, la vestizione de «’O sanguettaro» spinto dalla moglie, «’A maesta», a portare la rettifica al giornale che le ha attribuito una relazione con Don Rafele e, a proposito delle «sommarìe indagini» pronunciate dallo stesso Don Rafele nel leggere l’articolo in questione, la peregrina chiosa: «Maria è ‘o nomme e Indagini ‘o cugnome». E nella medesima direzione, quella di una spettacolarità diffusa e spensierata, andava anche – in uno con le luminarie e i taralli col pepe e il vino rosso distribuiti nell’intervallo al pubblico seduto dietro lunghi tavoli invece che sulle poltrone – l’apparizione in carne e ossa del cantatore «Ova ‘e papera» che, nel testo di Viviani, è soltanto «la voce di Ova ‘e papera».
Restavano, dunque, l’impegno degl’interpreti, primi fra i quali la stessa Lara Sansone («’A maesta»), Ciro Capano («’O vrennaiuolo»), Lucio Pierri («’O sanguettaro»), Matteo Salsano («’O zuoppo» e Don Rafele), Ingrid Sansone («’A farenara») e Patrizia Capuano (Donna Vicenza) e, soprattutto, la lodevole volontà di ricordare Luisa Conte a vent’anni dalla morte. E un brivido ti coglieva quando vedevi sulle spalle di Lara Sansone lo stesso scialle (meraviglioso, sembra dipinto da Migliaro) che indossò sua nonna, impareggiabile «maesta» nell’87.

                                                                                                                                 Enrico Fiore

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