Nella solitudine dei campi del teatro

Federica Rosellini e Lino Musella in un momento di «Nella solitudine dei campi di cotone»  (le foto che illustrano questo articolo sono di Salvatore Pastore)

Federica Rosellini e Lino Musella in un momento di «Nella solitudine dei campi di cotone»
(le foto che illustrano questo articolo sono di Salvatore Pastore)

NAPOLI – «Qui, soli come siamo, nell’infinita solitudine di quest’ora e di questo luogo che non sono né un’ora né un luogo definibili, perché non c’è ragione che io la incontri né ragione che lei incroci la mia strada né ragione per la cordialità né un numero ragionevole per farci procedere e che ci dia un senso, dobbiamo essere semplici, solitari e orgogliosi zeri».
Oltre ogni dubbio, è questa (la pronuncia il Cliente) la battuta-chiave di «Nella solitudine dei campi di cotone» di Bernard-Marie Koltès. E basterebbe da sola a dimostrare che quel testo va considerato, senza esitazione alcuna, come uno dei vertici della drammaturgia degli anni Ottanta.
Siamo al cospetto di una dichiarata allegoria. E non a caso, d’altronde, i due personaggi in campo – il «Dealer» (ossia il Venditore) e, per l’appunto, il Cliente – non lasciano mai capire quale sia, in effetti, l’oggetto della loro smarrita e, ad un tempo, frenetica, delirante e, non di rado, animalescamente violenta trattativa.
Armi, droga, il loro stesso corpo? I due non lo dicono. Parlano soltanto, e in quel diluvio di parole – i riferimenti letterari, e teatrali in specie, sono praticamente infiniti, spaziando da Marivaux a Beckett, da Corneille a Genet, da Kafka a Brecht – si fonda e si esalta una lingua straordinaria, barocca e, insieme, essenziale sino ai limiti della tautologia e dell’impotenza comunicativa. Una lingua che trova la sua suprema ed estrema giustificazione nel fatto che – assumendo le forme e i ritmi di un duello (o di una cerimonia: ma, in fondo, il duello e la cerimonia sono la medesima cosa) – diventa essa stessa un’allegoria.
In breve, l’ineffettualità della trattativa in questione significa che il Venditore e il Cliente sono le due facce di una sola medaglia e che, dunque, il loro inesausto duello di parole non è che l’ennesima allegoria, quella della vita. E della vita ancora il Cliente pronuncia una definizione che forse è la più alta ed esaustiva mai risuonata su un palcoscenico: «[…] si tace o si fugge, si rimpiange, si aspetta, si fa quel che si può, movimenti assurdi, illegalità, tenebre».
Ora, Andrea De Rosa, firmando l’allestimento di «Nella solitudine dei campi di cotone» che la Compagnia Orsini ha presentato in «prima» assoluta, per il Napoli Teatro Festival Italia, nel Cortile delle Carrozze di Palazzo Reale, dice che la chiave di regia gli è stata suggerita, durante la quarantena, dall’immagine dei teatri vuoti: e quindi ha pensato al personaggio del Venditore come a un’attrice dimenticata su un palcoscenico e a quello del Cliente come a uno spettatore che entra in uno di quei teatri vuoti, di modo che, si capisce, l’oggetto della misteriosa trattativa fra i due diventa il teatro stesso.
Non sto a sprecare parole circa l’acutezza di una simile lettura del gran testo di Koltès: s’impone e si sviluppa non solo in rapporto alla contingenza storica, che obbliga a una riflessione indifferibile su che cosa oggi sia (e possa e debba essere) il teatro, ma anche e soprattutto in riferimento a taluni dei passi decisivi proposti dal drammaturgo maghrebino.
Penso, in particolare, alla seguente battuta del Venditore: «Io non sono qui per dare piacere, ma per colmare l’abisso del desiderio, richiamare il desiderio, costringere il desiderio ad avere un nome, trascinarlo fino a terra, dargli una forma e un peso, con l’inevitabile crudeltà che c’è nel dare una forma e un peso al desiderio».
S’incontrano qui, in un vertiginoso abbraccio, il Cendrars che osserva: «Solo un’anima piena di disperazione può raggiungere la serenità, e per essere disperati, bisogna aver molto amato il mondo e continuare ad amarlo» e il Michelstaedter che constata: «[…] sempre lo tiene un’ugual fame del più basso, e infinita gli resta pur sempre la volontà di scendere. Che se in un punto gli fosse finita, e in quel punto potesse possedere l’infinito scendere dell’infinito futuro, in quel punto esso non sarebbe più quello che è: un peso. La sua vita è questa mancanza della sua vita».
Infatti, oggi più che mai, e la scorgo perfettamente riflessa in questo spettacolo di De Rosa, vale la considerazione che molto spesso ho fatto a proposito del teatro partendo dai due passi appena citati: incarna la grazia e la maledizione dell’essere costretto, per sua natura, a fingere la vita nel momento stesso in cui vive.

La sequenza conclusiva dello spettacolo, presentato nell'ambito del Napoli Teatro Festival Italia

La sequenza conclusiva dello spettacolo, presentato nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia

Venendo adesso all’allestimento in sé, il primo dato da sottolineare è la straordinaria (e straordinariamente significante) corrispondenza fra il suo assunto concettuale e il sistema dei segni visivi e sonori che De Rosa dispiega sul palcoscenico.
Entrando in sala, gli spettatori trovano l’attrice che impersona il Venditore già immersa, su quel palcoscenico, in un aggirarsi dolorante e confidente insieme. Indossa un abito di foggia settecentesca, e si muove davanti a un sipario debitamente rosso ma chiuso a metà e intorno a due proiettori piazzati a casaccio al centro dello spazio nudo, come residui di una prova interrotta. Rappresenta, insomma, l’idea di un teatro murato in una classicità intellettualistica oggi impraticabile.
Per giunta, i due proiettori utilizzano una lente di Fresnel, che si chiama così dal nome del fisico francese che descrisse per primo il comportamento della luce al passaggio attraverso mezzi con due indici di rifrazione differenti. E infatti il Cliente arriva, invece, dalla platea. Indossa un impermeabile, maglietta e jeans. E si muove come una bestia, aggressivo e timoroso insieme, a tratti cadendo a terra prostrato. Rappresenta, insomma, l’idea di una quotidianità tanto lacerata quanto urgente.
Dunque, viene così illustrato in maniera eclatante l’ossimoro che domina il testo: quello, naturalmente, della vita, da un lato aperta alla speranza e dall’altro votata alla disillusione, da un lato capace di tenerezza e dall’altro ripiegata sul risentimento, da un lato leggera come una piuma e dall’altro pesante come un macigno. E a dar voce e gesto a un simile intreccio di pulsioni opposte non si sarebbe potuto trovare interpreti più adatti di Federica Rosellini e Lino Musella: la loro trama d’inchini leziosi e minacciosi avvicinamenti, di sensuali abbandoni e rabbiosi ammonimenti, di ammiccamenti complici e fughe nevrotiche parla di una bravura tecnica non disgiunta dalla partecipazione emotiva.
Ma c’è, poi, una scelta di regia che – magari De Rosa non se n’è reso conto – sfocia in risultato espressivo addirittura folgorante. Qui, dall’inizio alla fine, quasi senza soluzione di continuità, si sentono le «Variazioni Goldberg» di Bach suonate da Glenn Gould. E De Rosa ha dichiarato che le ha adottate perché «la musica di Bach è bellezza geometrica e imprime forza al testo». Ma sta di fatto che le «Variazioni Goldberg» hanno qualcosa di particolare e di particolarmente affine a questo testo e a questo spettacolo. A partire dalla circostanza che furono composte per incarico del conte Keyserling: il cembalista Johann Gottlieb Goldberg, allievo di Bach, di notte doveva distrarre con le sue esecuzioni il conte, che soffriva atrocemente d’insonnia.
Ebbene, la trentesima e ultima delle «Variazioni Goldberg», caratterizzate da un irrefrenabile virtuosismo, accoglie due canzoni popolari – «Ich bin so lang nicht bei dir gewest (Non sono stato con te per così tanto tempo)» e «Kraut und Rüben haben mich vertrieben (Le erbe e le barbabietole mi hanno portato via)» – che, evidentemente e scherzosamente, mettono in campo da parte di Bach l’ipotesi che l’ascoltatore abbia completamente dimenticato il tema dopo l’autentico diluvio di danze, canoni, unisoni e intervalli di nona che lo ha investito.
Sì, uno straniamento geniale e raffinatissimo. E che collima in tutto e per tutto con il finale dello spettacolo: quando, davanti a quel sipario mezzo chiuso, il Venditore e il Cliente, una buona volta fianco a fianco, battono in breccia il virtuosismo del testo perdendosi, giusto all’unisono, in una pantomima reiterata che si muove a metà fra gli esercizi dei ballerini classici e i giochi dei bambini. Una pantomima che, peraltro scaraventandolo in una lancinante attualità, giunge ad incarnare fino allo stremo il paradosso decisivo di Koltès: «Il teatro non mi è mai piaciuto molto, perché è evidentemente il contrario della vita: eppure ci torno sempre, e mi attira proprio perché è il solo posto nel quale si ammette subito che la vita è altrove».

                                                                                                                                         Enrico Fiore

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2 risposte a Nella solitudine dei campi del teatro

  1. Barbara Basso scrive:

    Che gioia – anche se non si è potuto assistere in prima persona allo spettacolo, ma solo assaporarlo tramite le sue parole, maestro – sapere che c’è chi ha saputo far fruttare questi terribili tempi e le loro costrizioni ridando vita a un testo importante in forme nuove. Al di là degli impedimenti, dei paletti, dei momentanei confini, anche tra gli interpreti, che sia ancora una volta la scrittura o la riscrittura, ovvero la materializzazione del pensiero, la via di fuga?
    Barbara Basso

  2. Enrico Fiore scrive:

    Hai ragione, cara Barbara. La via di fuga è sempre e comunque l’affidarsi alla facoltà di pensare, l’unico vero vaccino in grado di affrancare gli umani dalle malattie, fisiche o spirituali, che li affliggono.
    Enrico Fiore

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