Quando Latella andò in «Estasi»

Una scena di «Santa Estasi. Atridi: otto ritratti di famiglia» (foto di Brunella Giolivo)

Una scena di «Santa Estasi. Atridi: otto ritratti di famiglia» (foto di Brunella Giolivo)

Riporto la rievocazione pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Ho già scritto che il suo è il più bel nome che un teatro abbia mai avuto. E adesso aggiungo, proprio a partire da quel nome, che per me andare al Teatro delle Passioni di Modena – uno dei sette teatri gestiti da Emilia Romagna Teatro, insieme con l’Arena del Sole e il Teatro delle Moline di Bologna, lo Storchi (sempre di Modena), il Bonci di Cesena, il Dadà di Castelfranco Emilia e il Fabbri di Vignola – è un autentico rito. Scandito da tre tappe.
La prima tappa consiste nel prendere un taxi alla stazione di Modena e recarmi a pranzo nell’Hostaria Carducci, che ovviamente si chiama così perché venne frequentata dall’autore delle «Odi barbare». Ci sono un busto del poeta e i suoi versi scritti sulle pareti.
La seconda tappa consiste nello svoltare l’angolo, appena finito il pranzo, ed entrare nell’Hotel Canalgrande, l’albergo in cui alloggio a Modena, sempre lo stesso, e in cui mi riservano sempre la stessa camera, la 137. È come stare a casa. E se guardo fuori, vedo un giardino che ha un’aria antica, con colonne che sbucano dal verde. Mi torna, puntualmente, il ricordo del «Giardino autunnale» di Campana: «E dal fondo silenzio come un coro / tenero e grandioso / sorge ed anela in alto al mio balcone: / e in aroma d’alloro, / in aroma d’alloro acre languente, / tra le statue immortali nel tramonto / ella m’appar, presente».
La terza tappa, s’intende, consiste nell’arrivare al Teatro delle Passioni per assistere allo spettacolo in programma. Il teatro, ricavato in alcuni spazi dell’ex Azienda Municipalizzata del Comune di Modena, si chiama così soprattutto in omaggio a Thierry Salmon, l’artista prematuramente scomparso che proprio a Modena diede vita al suo allestimento, «Des Passions», tratto da «I demoni» di Dostoevskij. E dunque è un teatro destinato alle nuove proposte, non a caso, perciò, frequentato specialmente dai giovani.
Infatti, fu qui che, nel maggio del 2016, vide la luce, nell’ambito del Corso di Alta Formazione della Fondazione Emilia Romagna Teatro, quello che resta il più imponente progetto mai ideato e realizzato in Italia dalla scuola di teatro di uno Stabile. Parliamo di «Santa Estasi – Atridi: otto ritratti di famiglia»: un progetto, sarà bene sottolinearlo, indiscutibilmente e palesemente targato Napoli, visto che a firmarlo fu Antonio Latella e che al fianco del regista di Castellammare agì principalmente quella Linda Dalisi ch’è figlia di Riccardo, il nostro designer di fama internazionale.
Ecco i dati di cronaca relativi all’operazione. Attraverso provini a cui parteciparono 535 (cinquecentotrentacinque) candidati, furono scelti sedici attori (Alessandro Bay Rossi, Barbara Chichiarelli, Marta Cortellazzo Wiel, Ludovico Fededegni, Mariasilvia Greco, Christian La Rosa, Leonardo Lidi, Alexis Aliosha Massine, Barbara Mattavelli, Gianpaolo Pasqualino, Federica Rosellini, Andrea Sorrentino, Emanuele Turetta, Isacco Venturini, Ilaria Matilde Vigna, Giuliana Vigogna) e sette drammaturghi (Riccardo Baudino, Martina Folena, Matteo Luoni, Camilla Mattiuzzo, Francesca Merli, Silvia Rigon, Pablo Solari), i quali ultimi – con l’assistenza di tre «tutor», lo stesso Latella e i suoi due drammaturghi stabili, appunto la Dalisi e Federico Bellini – si fecero carico dell’adattamento delle celeberrime tragedie che giusto all’orrenda saga iniziata da Atreo si riferiscono. E ne vennero fuori sette (più un ottavo, «Crisòtemi», su testo della Dalisi) spettacoli, tutti con la regia di Latella: «Ifigenia in Aulide» (da «Tieste» di Seneca e «Ifigenia in Aulide» di Euripide) di Francesca Merli, «Elena» (da «Le Troiane» ed «Elena» di Euripide) di Camilla Mattiuzzo, «Agamennone» (da Eschilo) di Riccardo Baudino, «Elettra» (da Euripide) di Matteo Luoni, «Oreste» (da Euripide) di Pablo Solari, «Eumenidi» (da Eschilo) di Martina Folena e «Ifigenia in Tauride» (da Euripide) di Silvia Rigon.

Antonio Latella con Linda Dalisi

Antonio Latella con Linda Dalisi

Vidi tutti e otto quegli spettacoli in due giorni consecutivi, quattro sabato 14 e quattro domenica 15 maggio 2016. E la motivazione complessiva del vertiginoso evento (che sarà messo in rete a partire da sabato prossimo nella pagina ERTonAIR del sito di Emilia Romagna Teatro) la trovai nelle ultime righe delle note di Linda Dalisi relative al suo testo: «Proprio la memoria del senso tragico diventa centrale, mi ricorda che studiare il passato offre materiale vivo per i processi creativi del presente, e la culla di questa possibilità è la scuola, oggi vittima di uno scempio criminale che gradualmente vorrebbe mutilarla del mondo antico. Materia viva, vitale, sempre giovane, che aspetta nei secoli di essere scoperta».
Per quanto riguarda, invece, gli allestimenti da parte di Latella, direi che il loro tratto distintivo può essere riassunto con tre parole: reattività, radicalità e lucidità. Parlo della reattività come capacità di trovare nuovi stimoli in un materiale drammaturgico inscritto in una classicità persino proverbiale e, dunque, in sé autosufficiente; della radicalità come capacità di spingere a un estremo ulteriore quanto è già estremo di suo; e della lucidità come capacità di cogliere i rapporti fra l’antico (ciò che siamo stati) e il contemporaneo (ciò che siamo o ci avviamo ad essere).
Aggiungo, in merito alla regia in sé, che il suo pregio determinante sta nell’essere multiforme proprio come il variegato materiale drammaturgico che qui si affronta: nel senso che, con una strategia ad un tempo acutissima e disinvolta, cambia stile e aspetto per ciascuno degli otto spettacoli compresi nel progetto, aderendo come un guanto ai temi centrali che caratterizzano le singole puntate della saga.
In proposito faccio due soli esempi, l’uno relativo al piano puramente spettacolare e l’altro alla dimensione concettuale. Il primo è quello di Elettra che balla col fantasma di Agamennone sull’onda di «Dance me to the end of love» di Leonard Cohen («Conducimi ai figli che chiedono di nascere»…); e il secondo è questo: mentre su un tavolo esplode la frenesia animalesca dell’Ifigenia che s’avvia ad essere trasformata in cerva da Artemide, tutti gli altri attori, schierati al proscenio, si voltano verso il pubblico e lo sommergono di sghignazzate: ciò che, d’accordo, attiene alla smitizzazione del proprio ruolo e di quanto stanno recitando, ma costituisce anche, e soprattutto, l’accusa agli spettatori di non essere capaci, oggi, di mettersi all’altezza delle vicende narrate.

L'ingresso del Teatro delle Passioni di Modena

L’ingresso del Teatro delle Passioni di Modena

In breve, l’impossibilità della tragedia, in precedenza (a partire da Ibsen e Pirandello) certificata sul piano drammaturgico come portato della crisi della società borghese, viene adesso certificata da Latella come puro e semplice portato della difficoltà di vivere.
Me ne andai da Modena, in quel maggio del 2016, con una speranza e un dono. La speranza era (ed è, per questo ho scritto al presente, come se fossero tuttora possibili i miei viaggi verso le «Passioni») che – se ci sono giovani che hanno voglia d’imparare e maestri affermati che si mettono a loro disposizione aiutandoli ad imparare – per il teatro non tutto sia perduto. Mentre il dono me l’avevano fatto le parole di Linda Dalisi, suscitandomi ricordi che – la vita essendo, tutto sommato, come il gioco delle scatole cinesi – s’incastrarono tenacemente l’uno nell’altro.
Pensai soprattutto a Irene Papas. Era una mattinata dolce del febbraio 2009. E in un albergo di Venezia, subito dopo che le avevano consegnato il Leone d’Oro alla carriera, lei mi disse con un tremito di commozione: «Sono vicini all’uomo, i personaggi della tragedia greca. Stanno lì da sempre, in attesa dell’uomo. Non si muovono, non cambiano, non ci guadagnano niente. Ci guadagna l’uomo, ad avvicinarli».

                                                                                                                                           Enrico Fiore

                                                                                                                                            3 – continua

(«Corriere del Mezzogiorno», 20/5/2020)

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