E Falce e Martello ballarono il «lissio»

Da sinistra, Giovanni Dispenza, Andrea Lupo e Micaela Casalboni in un momento di «Casa del Popolo» (le foto dello spettacolo che illustrano questo articolo sono di Luciano Paselli)

Da sinistra, Giovanni Dispenza, Andrea Lupo e Micaela Casalboni in un momento di «Casa del Popolo»
(le foto dello spettacolo che illustrano questo articolo sono di Luciano Paselli)

Riporto la rievocazione pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Il coronavirus ha chiuso i teatri? E io li riapro: nella dimensione della memoria, ovviamente.
Ho pensato – in questi giorni che c’inducono ad aggrapparci al passato per non annegare nel vuoto del presente – di compiere un viaggio a ritroso nei teatri in cui mi è capitato di assistere, negli ormai oltre cinquant’anni di attività professionale come critico, ad alcuni degli spettacoli che ritengo più interessanti e in cui mi è stata regalata la fortuna d’incontrare alcuni dei personaggi (non solo quelli famosi) che ritengo, o sono di fatto, più significativi.
Il viaggio s’intitola, naturalmente, «I miei teatri». E cinque saranno le sue tappe: il Teatro dell’Argine di San Lazzaro di Savena, il Piccolo di Milano, il Fabbricone di Prato, il Teatro delle Passioni di Modena e lo Spazio Libero di Napoli.
Molti, inutile dirlo, saranno i riferimenti alla nostra città: in certi casi diretti, in altri indiretti o simbolici o metaforici. Ma sempre, comunque, si parlerà di qualcosa che rimanda ai problemi e alle atmosfere di oggi. (E. F.)

Il mio viaggio comincia da una piccola cittadina, da un piccolo teatro, da una piccola compagnia e da un piccolo spettacolo sconosciuti ai più ma che adesso possono interessare a tutti, in riferimento all’esercizio della memoria come strategia per preservare l’identità collettiva che rischia di scomparire.
Erano diversi anni che mi arrivavano comunicati e inviti da parte del Teatro dell’Argine di San Lazzaro di Savena, un borgo di trentaduemila abitanti alle porte di Bologna. E non avevo mai risposto, un po’ per i troppi impegni che s’affollavano nella mia agenda e un po’, dico la verità, perché mettevo in conto il rischio dei facili entusiasmi e delle approssimazioni che di solito induce la provincia. Ma poi, nel novembre di tre anni fa, mi giunse un ennesimo comunicato del Teatro dell’Argine che cambiò totalmente le cose.
Non avevo nemmeno letto il titolo dello spettacolo di cui si parlava. Gli occhi mi si soffermarono subito sulle note del regista Andrea Paolucci. Perché erano diverse da quelle solite, in genere inutili (un regista, se ha qualcosa da dire, deve dirlo dal palcoscenico) e non di rado marchiate da sciocchezze. Nella circostanza si avvertiva che Paolucci affrontava un argomento che gli apparteneva: che apparteneva, intendo, alla sua vita di uomo prima che a quella di teatrante.
Parlava, Paolucci, del popolo. E scriveva: «Di solito viene evocato, ridotto a puro suono, nei dibattiti politici o nei comizi di piazza. Ma da qualche parte, come residuo di un mondo in via di estinzione, si aggira ancora un’umanità dedita al liscio, al burraco, ai quartini di vino e alle liti furiose per una giocata di briscola finita male. Vive in luoghi dove ci sono tavolini, banconi di bar, campi di bocce e tavole calde che sfornano enormi piatti di tagliatelle. Sverna e villeggia lì, giorno dopo giorno, anno dopo anno, mentre un altro popolo, più moderno ed efficiente, marcia con sicurezza nei corridoi di nuovi luoghi ricreativi, chiamati ipermercati. Non a questi – a nostra volta improduttivi e inattuali come tutti i teatranti – ci siamo dedicati, ma ai primi, rubandone voci, storie, dialoghi, atmosfere: per capire se il popolo (ammesso che esista) ha ancora una casa dove poter abitare».
Infatti, lo spettacolo in questione – che vidi nell’ITC Teatro, gestito per l’appunto dalla compagnia Teatro dell’Argine, guidata dal drammaturgo Nicola Bonazzi, da Paolucci e dall’attrice Micaela Casalboni – s’intitolava proprio «Casa del Popolo». E immediatamente, appena finii di scorrere le note del regista, me ne feci mandare il testo. Scoprendo che dalle pagine di Bonazzi balzava fuori un mondo intero, un mondo, oggi scomparso, fatto d’idee e di sentimenti, e delle azioni concrete in cui le idee e i sentimenti naturalmente si traducevano.
Ora, il materiale di partenza dello spettacolo, avvertiva il comunicato del Teatro dell’Argine, consisteva in decine e decine di interviste condotte con persone di diversa età e carattere in numerosi centri ricreativi dell’Emilia intorno a Bologna. Ma il gran pregio del testo di Bonazzi e dell’allestimento che ne discendeva stava nel fatto che non erano un’esaltazione nostalgica del Partito Comunista, che pure fu, per l’appunto, il «padre» delle Case del Popolo. La parola «comunista» ricorreva, e di sfuggita, non più di due o tre volte. Ciò che invece s’imponeva, con forza concettuale e capacità di fascinazione straordinarie, era l’idea comunista, ovvero l’idea di una società e di una convivenza di uguali.

Un altro momento di «Casa del Popolo», allestito dal Teatro dell'Argine di San Lazzaro di Savena

Un altro momento di «Casa del Popolo», allestito dal Teatro dell’Argine di San Lazzaro di Savena

Bastava a dimostrarlo il seguente brano del prologo: «Sai una cosa?» – «Cosa?» – «Io vado» – «Dove?» – «Non so, ma sento di dover andare. Dritto, con la fronte alta, il petto in fuori. Vieni?» – «Ci penso» – «Come ci pensi? Se pensi non vieni» – «Allora non vengo» – «E di là, non sei curioso di sapere cosa c’è di là?» – «Di là dove?» – «Di là dall’orizzonte, di là da tutto. Di là da me, da te, dalla nostra miseria. Ci sarà qualcosa» – «Lascia che ci sia» – «Non posso. Ho come un impulso, non riesco a fermarmi. Tu no?» – «Io veramente stavo andando dall’altra parte» – «E dall’altra parte cosa c’è?» – «C’è casa mia» – «Casa tua la conosci. Devi cambiare direzione, vieni con me, dammi la mano. Ecco, vedi, è facile. In due ci si fa compagnia, in due forse si arriva» – «Io non so se arriviamo» – «Non importa, intanto andiamo. E non dimenticarti di guardare» – «Cosa?» – «Di là dall’orizzonte, di là da me e da te, di là da tutto. Prova a guardare, fallo per loro» – «Loro chi?» – «La gente»…
Si sentiva l’eco del Gaber di «Qualcuno era comunista»: «Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri». E se all’obiezione che poneva il secondo dei due interlocutori («Basta. È troppo tempo che camminiamo, e di là dall’orizzonte non ci siamo ancora arrivati») il primo rispondeva: «Ascolta: l’orizzonte non è fatto per essere raggiunto, l’orizzonte è fatto per continuare a camminare», non si sentiva forse l’eco di Wolf Biermann, il poeta e cantautore di Berlino Est («… può darsi che un giorno / sarà tutto raggiunto. / E non avrò raggiunto / che un nuovo inizio daccapo»)? E se il personaggio Adelmo di Maria Noferini detto Delmo, «nullatenente, nullafacente e anche abbastanza nullo di comprendonio, stato più volte all’ospedale dei matti», tirava fuori una pistola Beretta quando Garuti, il presidente dell’assemblea per la costituenda Casa del Popolo, proponeva di opporre a Mussolini soltanto la «dignità», non si sentiva l’eco delle vecchie madri di Ritsos alle prese con gli occupanti nazisti («Ci aspettano i nostri figli per impastare la polvere da sparo come allora impastavamo il pane e trasportare pallottole come se portassimo il vassoio coi confetti e accendere la miccia della dinamite come un tempo accendevamo la lucerna»)?
Si capisce, quindi, che il microcosmo della Casa del Popolo si trasformava a poco a poco in un macrocosmo, nello specchio in cui si riflettevano le vicende capitali dell’Italia: dall’avvento del fascismo al dopoguerra, dal «boom» economico all’emigrazione dal Sud al Nord, dai cortei degli extraparlamentari alle bombe dei terroristi. E l’ironia («Questo nuovo partito chiamato Democrazia Cristiana in quanto democrazia, ovvero potere del popolo, sta simpatico a tutti, ma in quanto cristiana, ovvero dalla parte dei preti, sta sui maroni a tutti») camminava a braccetto con il ricordo commosso di quel Catuvén che, ucciso da un fascista, si presentava nella Casa del Popolo a raccontare della contadina che aveva cominciato a cantargli una ninna nanna «così dolce che è stato bello addormentarsi piano piano sotto il sole in mezzo ai fili d’erba che m’accarezzavano la faccia».
Ma pure il fantasma di Catuvén ribadiva l’idea del legame comunitario. Concludeva il racconto dicendo: «E allora son venuto a chiedere se qualcuno può venire a prendere sulla mia tomba il mio cappello, ve l’ho lasciato lì. Che magari vi serve ancora». E insomma, in quello spettacolo s’allacciavano nel liscio (anzi, obbligatoriamente, nel «lissio») Marx e il lambrusco, la Falce e il Martello e la piadina. Non senza una conclusione amara di cui ora, nei nostri giorni sospesi, avvertiamo un riflesso lancinante. Immerso in una nebbia persistente, il personaggio chiamato Salame diceva: «Sembra che non stiamo da nessuna parte». Ma, poi, era lo stesso Salame, il segretario dell’assemblea di cui sopra, che suggeriva una speranza, quella che anche noi possiamo coltivare oggi: «(…) è qui, in mezzo a tutta questa umanità, che ripulisco e correggo il mio verbale a futura memoria. E non c’è nessun altro posto al mondo dove adesso vorrei stare, se non qui, con la mia gente, nella nostra casa».

                                                                                                                                        Enrico Fiore

                                                                                                                                        1 – continua

(«Corriere del Mezzogiorno», 9/5/2020)

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