Se nell’harem di Racine irrompe la pazzia di Artaud

Da sinistra, Adama Diop e Jeanne Balibar in un momento di «Bajazet» di Frank Castorf (le foto dello spettacolo che illustrano questo articolo sono di Mathilda Olmi)

Da sinistra, Adama Diop e Jeanne Balibar in un momento di «Bajazet» di Frank Castorf
(le foto dello spettacolo che illustrano questo articolo sono di Mathilda Olmi)

«L’arte sarebbe assolutamente noiosa se eliminassimo ogni conflitto. […] Nel mio caso, questo significa essere un fan del conflitto, se vogliamo. […] Il consenso in teatro è sempre stato tutto quello che abbiamo cercato di distruggere attraverso il conflitto. Per noi si tratta di affermare continuamente il diritto di contraddire; una potenziale ostilità».
È una dichiarazione di Frank Castorf, il cui spettacolo, «Bajazet», avrebbe dovuto – se non fosse stato bloccato dal Covid-19 – chiudere allo Storchi di Modena la quindicesima edizione del Vie Festival promosso da Emilia Romagna Teatro. E occorre, subito, mettere quella dichiarazione in rapporto con il passo de «L’ombelico dei limbi» di Artaud citato in epigrafe alle note d’introduzione all’allestimento: «Mi piacerebbe scrivere un libro che conduca l’uomo alla pazzia, che rappresenti una porta aperta verso luoghi a cui non avrebbe mai avuto accesso, in poche parole una porta che si apra sulla realtà».
Infatti, l’operazione vertiginosa compiuta da Castorf nel doppio ruolo di adattatore dei testi e di regista consiste, per l’appunto, nella fusione della tragedia di Racine di cui nel titolo con alcuni degli scritti fondamentali del padre del «teatro della crudeltà», a partire, naturalmente, da «Il teatro e il suo doppio» e «Il teatro e la peste». Ma, per poter illustrare la fondatezza e l’acutezza di tale fusione, è necessario, preliminarmente, ricordare per sommi capi che cos’è «Bajazet».
Si tratta di una tragedia in cinque atti rappresentata all’Hôtel de Bourgogne di Parigi il 5 gennaio 1672. E il suo plot verte, in sintesi, sui punti seguenti: 1) Il sultano di Baghdad Amurat, impegnato in guerra e vedendo in Bajazet, suo fratello, un pericolo per il trono, ordina alla propria favorita Roxane di farlo uccidere; 2) Roxane viene presa da un’irresistibile passione per Bajazet; 3) Bajazet, che è innamorato della giovane nobile Atalide, rifiuta di acconsentire al matrimonio preteso da Roxane; 4) la passione di Roxane per Bajazet si tramuta in odio; 5) Roxane fa uccidere Bajazet dai suoi sicari; 6) Amurat, venuto a sapere della passione in precedenza nutrita dalla propria favorita per Bajazet, fa uccidere Roxane; 7) Atalide si suicida.
Ebbene, parliamo di un testo che è direttamente collegabile al passo de «L’ombelico dei limbi» sopra citato. Perché una delle caratteristiche decisive del teatro di Racine risiede nella concezione assolutamente moderna della religiosità: una religiosità in cui coesistono il misterioso dispiegarsi di forze oscure dominate dalla divinità e la libertà comunque concessa all’uomo, quella che gli consente di salvare, pur nella sconfitta, la dignità di esistere. Non a caso, la Fedra raciniana, sebbene attribuisca a una vendetta di Venere la sua «disgrazia», ovvero la passione ai limiti dell’incesto per il figliastro Ippolito, non per questo nega, mai, la propria responsabilità morale. E in ciò si dimostra sorella dell’Atalide che in «Bajazet» conclude: «[…] devo sopportare, per coronare il mio dolore, la vergogna senza fine che mi ricorda come la morte del mio amato sia solo colpa mia».

Frank Castorf

Frank Castorf

Di conseguenza, potrei ben a ragione concluderne, per esprimermi con semplicità estrema, che tanto Racine quanto Artaud mettono in campo non la rappresentazione, ma la reinvenzione della realtà. E con ferrea coerenza, Castorf ribadisce il primato esaltante delle scelte individuali teorizzato da Artaud immettendo nel testo originale di «Bajazet» tutta una serie di significanti rimandi ad altro. Per esempio, respinge il pessimismo manifestato da Jim Morrison con la nota affermazione: «La vita è come un’autostrada: non finisce mai, ma ci si resta sempre vittima» commentando deciso: «Non devi perdere la speranza. La vita non è come un’autostrada».
Ma Castorf, tanto per fare un altro esempio, tira in ballo anche Dostoevskij. Nel bel mezzo dei garbugli d’amore sciorinati da Racine irrompe la battuta: «Solo i russi e Dostoevskij possono capire. È una ferita profonda nell’anima. Una malinconia invisibile». E certo, c’è anche lo straniamento garantito da un’affilata ironia. Così come c’è quello gaglioffo introdotto da uno degli attori, Adama Diop, che annuncia serafico: «Vado a prendermi una Coca». Ma, poi, deflagra e straripa soprattutto la carica eversiva che da sempre distingue gli spettacoli del regista tedesco.
Non dimentichiamo, al riguardo, che Castorf si vide sospendere la produzione di «Tamburi nella notte» di Brecht a causa delle pressioni esercitate dal Partito Comunista della Repubblica Democratica Tedesca e che il suo allestimento di «Casa di bambola» di Ibsen gli costò addirittura la rescissione del contratto. E per quanto concerne «Bajazet», basta citare la sequenza in cui, mentre sul palcoscenico prosegue la vicenda fantasiosa immaginata da Racine, su uno schermo piazzato in alto a sinistra si vedono gli attori che interpretano i personaggi del gran visir Acomat e del suo confidente Osmin che – in una cucina, ma sempre indossando i rispettivi costumi – bevono, fumano, leggono i giornali e poi, tagliando con un coltello o forando con la punta delle sigarette accese le prime pagine di questi ultimi con le fotografie (lo spettacolo è in francese!) di Chirac e di Macron, ne fanno delle maschere piuttosto simili al cappuccio indossato dai membri del Ku Klux Klan.
Naturalmente, dico, con quest’esempio, anche degli eccellenti risultati che l’ex direttore artistico della Volksbühne di Berlino, uno dei maestri riconosciuti del teatro internazionale, ottiene utilizzando il video, della cui sperimentazione è stato un pioniere indiscusso. Qui davvero il video non è un semplice e ininfluente accessorio della messinscena, ma ne diventa un elemento costitutivo, contribuendo in misura determinante all’inesausto e intrigante inseguirsi e aggrovigliarsi di piani narrativi ed espressivi, slittamenti di senso e metafore che rappresenta la sostanza viva dello spettacolo.

Jeanne Balibar in un altro momento dello spettacolo

Jeanne Balibar in un altro momento dello spettacolo

Non sai mai, per farla breve, se gli attori che ad intervalli più o meno regolari compaiono sullo schermo stiano continuando ad essere parte dello spettacolo e quanto, invece, esprimano delle loro convinzioni e angosce e nevrosi individuali e private. Vedi, nel merito, quella Roxane completamente nuda che, col collo infilato in un cappio ad alludere alla sua prossima morte, s’impegna in cucina a pelare carote, bagnandole di lacrime. E nella famosa cucina, infine, ritroveremo anche Atalide, che, avviandosi al suicidio, nel frattempo s’impegnerà, stavolta, ad affettare pomodori. Mentre Bajazet, al quale sarà inflitto l’elettroshock per ricordarci il reiterato ricovero in sanatorio di Artaud, chiuderà la sua parabola in una gabbia, col corpo insozzato da un sangue ch’è solo la vernice rossa da lui stesso applicata con un pennello.
Aggiungo, poi, che – accanto a quelle da Artaud e Dostoevskij – non a caso ricorrono in «Bajazet» anche citazioni da Pascal. E che, accanto a un così complesso apparato teorico e concettuale, spicca la frequente esibizione di un manifesto che reclamizza il whisky «Wild Turkey». È la sottolineatura impagabile dell’odierna impossibilità della tragedia. E insomma, non esito a dire che questo spettacolo di Castorf è uno dei più articolati e feroci attacchi al teatro di rappresentazione in cui mi sia imbattuto negli ultimi anni.
Ma s’intende che non meno rilevante è la prova fornita dagli interpreti: intorno a una strepitosa Jeanne Balibar (Roxane), agiscono con precisione da antologia Jean-Damien Barbin (Bajazet), Adama Diop (Osmin), Mounir Margoum (Acomat), Claire Sermonne (Atalide) e – last but not least – il cameraman Andreas Deinert.
P.S. Ovviamente, non ho visto lo spettacolo dal vivo. Ne ho visto il video che mi ha mandato Debora Pietrobono, responsabile dell’ufficio stampa di Emilia Romagna Teatro, e che sarà messo in rete domani alle 16 nella pagina ERTonAIR (http://emiliaromagnateatro.com/ert-on-air/).

                                                                                                                                          Enrico Fiore

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