Roberto Andò: non dobbiamo capitolare

Da sinistra, Gianfelice Imparato, Carolina Rosi e Roberto Andò durante le prove di «Ditegli sempre di sì»

Da sinistra, Gianfelice Imparato, Carolina Rosi e Roberto Andò durante le prove di «Ditegli sempre di sì»

NAPOLI – Riporto l’intervista pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Ho incontrato Roberto Andò. Virtualmente, è chiaro: e per non perdere tempo a causa degli inciampi nella comunicazione via telefono, fisso o mobile che fosse, le domande e le risposte ce le siamo scambiate via mail. Quella che segue, dunque, è una perfetta intervista da quarantena.
– Avendo io considerato la tua nomina a direttore dello Stabile di Napoli come foriera del passaggio a una nuova – intendo più moderna e meno autoreferenziale – idea di teatro, mi tocca adesso, quasi una «corvée», chiederti innanzitutto che tipo di teatro ti sembra di poter immaginare per il dopo Covid-19.
«Bisogna uscire dalle regole e dai limiti del palcoscenico tradizionale, cosa che è stata l’ossessione delle grandi personalità e dei gruppi teatrali del secolo scorso. Ricordo quello che Klaus Grüber mi diceva anni fa: “Io ho una strana difficoltà con il teatro, non credo mai che sia quello che è”. Dietro queste parole c’è un pensiero profondo: non bisogna mai essere certi di cosa sia il teatro. L’epidemia in corso ci ha precipitato in un disorientamento che coinvolge anche questa presunta certezza. Non sappiamo qual è il luogo della vita, tantomeno sappiamo come ritrovare il luogo del teatro. Siamo nella stessa situazione della chiesa. Non possiamo celebrare il nostro culto. E le forme di tutela del mondo dello spettacolo sono carenti, il tetto dei 50mila euro non copre la gran parte dei lavoratori. L’unica è fare in modo che i teatri riaprano, sia pure nel distanziamento, e che si riprenda a progettare spettacoli, che si ricominci a provare. Io non credo molto alla soluzione del teatro fatto in televisione. Penso che per fare teatro in televisione bisogna trovare un linguaggio rigoroso e audace e autori adatti a quel mezzo e a quella platea. Altrimenti ne verrà fuori un surrogato o un fiasco, e la gente cambierà canale».
– Dal momento che il teatro è un’arte eminentemente sociale (e dal momento che il coronavirus ha lacerato drammaticamente proprio il tessuto comunitario), quali pensi che dovranno essere i rapporti con gli spettatori-cittadini quando i teatri saranno riaperti?

Samuel Beckett

Samuel Beckett

«Credo che se dovessero riaprire in estate, come mi auguro, o poco dopo, in settembre, ci sarebbe ancora la paura del contagio. Gli effetti di queste restrizioni saranno duraturi, con conseguenze anche in quei gesti che consideravamo una prerogativa inalienabile del nostro modo di vivere le emozioni. Parlo dell’abbraccio, dei baci. Ma penso anche che ci sarà una grande voglia di partecipazione, e che si dovrà, teatralmente parlando, operare una ricostruzione. In questo senso, vale il paragone con la guerra, anche se qui non ci sono macerie visibili ma invisibili. Il pubblico del dopo Covid-19 avrà bisogno del teatro, e ritornerà a frequentarlo, gradualmente, ma pienamente, come faceva prima. Di questo sono abbastanza certo. Ma dovrà essere accompagnato, e guidato, in un paesaggio devastato, aggirando rovine che non saranno tangibili. Questa epidemia pone il problema della protezione sociale, e il nostro mondo di lavoratori dello spettacolo, per definizione saltuario, deve essere finalmente tutelato come accade in molti paesi europei, per esempio in Francia dopo le battaglie degli intermittenti. Bisognerà ricreare gli stessi presupposti civili del dopoguerra, tra cui il buon umore e la fiducia nel futuro. Come ricordavi tu giorni fa, la fiducia nel teatro non assicura che non prevalgano la disperazione e la perdita. Sarah Kane ne è un esempio».
– Molti, prigionieri di un’ormai insopportabile mistica del teatro, insistono ad attribuirgli – prevalentemente se non esclusivamente – il compito di raccontare non meglio precisate «storie». Ma, secondo te, il teatro deve «raccontare», ossia imporre al pubblico una fruizione soltanto passiva, o, al contrario, determinare un corto circuito mentale che inneschi atteggiamenti e comportamenti improntati alla presa di coscienza dei problemi collettivi?
«Non credo che il teatro racconti storie. Personalmente penso che neanche il cinema lo faccia. Soprattutto, non penso che il senso di uno spettacolo o di un film sia riducibile alla sua trama o alla storia che vi si racconta. Il teatro offre un altro testo, modulato da una complessità di registri e di mezzi. Persino negli spettacoli dei raccontatori orali, a volte, il non detto prevale sul detto. Così come nella vita. Quel corto circuito a cui fai riferimento tu è il gorgo profondo in cui si sprofonda insieme nel buio della sala, o del cinema, e va ben al di là delle storie».

Thomas Bernhard

Thomas Bernhard

– In quest’ambito, quale ritieni che possa continuare ad essere il ruolo dei «classici»?
«Credo che sia importante non fare di quel grande patrimonio di testi una sublime natura morta. C’è un enorme campo di conoscenze dietro ogni testo classico, ma c’è anche il rischio che si corrisponda in modo pigro o decorativo alle decisive domande che vi sono evocate, e che non vi si calino le speranze, e le angosce, del mondo che viviamo oggi. E quindi c’è sempre un punto di rottura da trovare, per evitare, appunto, di riprodurne solo la pura evidenza e farne una mera natura morta. L’insidia del “classico” è la presunta immutabilità di un repertorio, la gente va a vedere uno spettacolo a Siracusa, Epidauro o Pompei come si va a sentire la “Norma” o la “Tosca”, per ritrovarsi in una consuetudine, per riascoltare le battute memorabili di un repertorio che già conosce. Registi, attori e spettatori dovrebbero invece affrontare i grandi “classici” con la consapevolezza di intraprendere un viaggio verso approdi sconosciuti, terre che abbiamo già abitato e di cui non abbiamo più memoria. In questo senso, mi convince la definizione di “classico” di Steiner: un testo fuori dal tempo, immortale perché il suo significato trascende la morte. Un “classico” è un testo che si degrada meno, e che per questo tende a proiettarsi fuori dal qui ed ora. In questo senso, anche l’opera di Eduardo è a pieno titolo un “classico”, con tutte le insidie che questa definizione implica».
– Un’ultima domanda, specchio della precedente: c’è, a tuo parere, un autore teatrale contemporaneo che meglio degli altri può aiutarci a capire quello che ci sta capitando? E che, peraltro, ci aiuti a prevedere in qualche modo ciò che dovremo affrontare nel dopo-virus?
«Questa è una domanda veramente difficile. Non si può prevedere il tempo in cui si attueranno le condizioni ideali per cui un pubblico incontrerà un testo. Ogni epoca scopre i testi che ne colgono meglio l’anima e lo fa riportandone a sé alcuni e dimenticandone altri. È un meccanismo collaudato e che si ripete puntualmente in modo abbastanza misterioso. L’esperienza della peste non è nuova, e a questo proposito possiamo rileggere Sofocle, De Foe, Manzoni, Artaud, Camus. Ma credo che il testo che rappresenta questo tempo, questa esperienza, non sia ancora stato scritto. Di certo, la nostra vita di questi giorni, sospesa in un’attesa indefinita, evoca scenari beckettiani. “Bisogna continuare, non possiamo continuare”, potrebbe, ad esempio, essere una battuta adatta ai nostri tempi. Altrimenti potremmo ricorrere a una battuta del “Minetti” di Bernhard, un altro scrittore che odiava il teatro, ma che non poteva farne a meno: “Non dobbiamo capitolare / capitolare no / se cediamo è la fine di tutto / se cediamo un solo istante”. Ma credo, come scriveva Brodskij, che in certi periodi della storia solo la poesia sia capace di confrontarsi con la realtà, perché la condensa in un qualcosa di afferrabile, un qualcosa che altrimenti la nostra mente non saprebbe ritenere».

                                                                                                                                           Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 28/4/2020)

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