Borrelli: «Abbiamo educato il pubblico a non sognare più»

Mimmo Borrelli ritratto sul manifesto di un seminario da lui diretto

Mimmo Borrelli ritratto sul manifesto di un seminario da lui diretto

NAPOLI – Avevo chiesto anche a Mimmo Borrelli d’intervenire nel dibattito circa «il teatro che verrà». E lui, dopo svariati giorni di silenzio, mi ha risposto con l’intervento che segue. È un intervento fluviale e magmatico, che pubblico integralmente senza toccarne nemmeno una virgola, nemmeno gli errori di battitura. Perché dice dell’empito irrefrenabile di una passione pura e di un pensiero forte, che non aspira a volgersi in bella scrittura ma si traduce in una denuncia e in un’autodenuncia spietate e coraggiose, e coraggiose proprio in quanto spietate. (E.F.)

«Carissimi tutti, dal mio sempre parziale punto di vista con orizzonte il mare flegreo, credo che ci sia, rispetto a questa dovuta disquisizione sul senso dell’arte teatrale, mai come in questo momento, l’obbligo di chiamata alle armi in spalla e remi in terra citando Odisseo.
In un altro momento e immagino entrambi, sia te Enrico, che il sottoscritto, in tanti incontri e telefonate condivise, credo che avremmo preferito disquisire sul presente e sul “fare”.
Il teatro è l’atto e soprattutto l’arte del “fare”, della messa in corpo, suono e voce delle emozioni umane. Il teatro per assioma, non può avere futuro, né misurarsi con esso.
Il teatro è parziale. Immediato. Sfuggente. Fermarlo impresa erculea.
Oggi siamo costretti a farlo, per riappacificarci e aggrapparci al presente fuggito e senza polvere delle tavole, le quali danno contorno e impanatura ideologica all’umanità sconnessa ad oggi da qualsiasi contatto.
Quel presente, manca, ci sfugge. Ne sentiamo il vuoto e nel buio nauseante di quel vuoto, la conseguente paura dell’avvenire incerto e di non poterlo più ghermire.
Il silenzio del pubblico nella sua paura rassicura poiché elegge e dona il diritto della parola. Il silenzio del contatto, l’incertezza del prossimo e del diverso infonde solo terrore senza alcun sapore salino di emersione. Lo dico parlandone più da spettatore che da esecutore. Nel momento in cui si è fermi e preclusi dal compiere e far circolare questo dono pratico e diretto di artigianato manovale delle manifestazioni umane, quel “fare” deve lasciare il posto, ai cosiddetti e a volte pleonastici in epoche comuni: perché e come.
Come fanno i bambini, superata la conoscenza orale, dei primi tempi, poi quella visiva, per poi passare all’epifania tattile, dopo questa dettagliata, esperienziale, esplorazione organica arrivano ad approfondire e “costitutire”, la loro legge morale ed etica di comportamento, circa la conoscenza del mondo attraverso una comprensione altra. Nutrono il bisogno corporeo e inderogabile di capire il mondo anche attraverso la ragione. E iniziano a immettere selezionare, raccogliere, numerare e categorizzare ogni cosa.
Stesso nutrimento e sete, hai sentito tu Enrico in questo periodo che ci vede tutti appena nati, neofiti e in fasce, poiché siamo appena entrati in una nuova epoca.
Di cultura, si può disquisire secondo me in modo più utile, proprio quando “essa” manca, quando se ne ha fame; compito di sacrificio di approdo è destinato alle rotte segnate da letterati, naviganti e poeti.
Di cultura si deve, ad ogni costo disquisire, quando “essa” è vietata e ostacolata dai regimi o impossibilitata nella sua pratica organica e giornaliera, come per l’assunzione di responsabilità rispetto alle contingenze attuali.
Sul senso e la necessità del teatro e dell’arte d’improvviso, eminenti filosofi ed esteti, filologi, letterati e poeti hanno dato le più svariate definizioni:
l’arte del presente; l’arte più effimera del secondo che corre; l’arte più legata allo scorrere esecutorio e cronometrato del tempo; l’arte più promiscua, provvisoria, altalenante che racchiude tutte in sé le arti e non le riassume; quell’ars che comprende le intere arti, ma esaurendosi chimicamente nel medesimo istante in cui accade, ovvero nel presente, produce e si muta in un’azione effimera che può essere accolta se non irrimediabilmente solo attraverso il contatto visivo, olfattivo, sebaceo, salivare, non a caso si parla dell’unica forma d’arte davvero viva; arte che accoglie e non respinge, anche se dovrebbe, tutti gli artisti contemporanei spesso di sinistra, che s’illudono nell’efficienza oleografica di essere artisti in altre arti, di potersi misurare e parcheggiare le loro onanistiche, compulsive e non comunicative compensazioni falliche, anche nel teatro; ma l’arte d’improvviso, almeno secondo me, non ha nulla a che vedere con l’astratto, ma si misura con la concretezza della materia, del contatto oggi precluso e quindi: del corpo.
Quel corpo sarà distante e assente, non illudiamoci, almeno per questa e per tutta la stagione 2020-21. Il sottoscritto si sta ponendo in questa condizione di clausura, durante questi dannati giorni di afa alimentare e noia rispetto alla spasmodica civiltà dell’apparire, in un sommesso silenzio.
Posso dire di essere abbastanza abituato alla quarantena. Di solito il mio lavoro si alterna tra un anno di vita scenica a due di vita “scrittoia”. Anni nei quali esco di rado se non per vedere il mare, mio padre e mia madre e dare respiro alla mano e la mente insufflata di zolfo eccessivo per troppi versi e accese “malparole”.
Ero anche tentato, nonostante la stima giornalistica e l’interesse feroce per quest’argomento, che mi sta molto a cuore, di evitare di scrivere, per un mio attuale senso di rispetto e lutto verso una situazione drammatica. Ma ne ho sentito l’eco, del dovere verso la comunità, quindi seppur logorroicamente e in ritardo, eccomi qui.
Non sono restio, ma onorato di essere chiamato in causa però sentivo quell’inadeguatezza di porsi e ergersi a protagonista durante un funerale immanente, visivo, che ti travolge nella sua assenza che è il corona virus. Dove l’unica antagonista è la morte. Quella morte che se antagonista è per antonomasia dell’uomo deve avere necessariamente, come protagonista il morto.
Siamo nel pieno di una tragedia nella tragedia, poiché non è concessa l’espiazione del lutto, la teatrale partecipazione condivisa al dolore.
Il teatro, la rappresentazione, nasce proprio da tali traumi. Affrontare e rappresentare il dolore per attraversarlo e superarlo. In tal caso non solo è precluso il teatro tra virgolette ufficiale e borghese, ma anche l’atto antropologico della rappresentazione che l’uomo compie per superare i suoi isterismi.
Credo sia una delle poche volte nella storia che il dolore, per la perdita di un caro, non possa essere percepito nel corpo, poiché recluso da un virus privato, un gendarme che non consente funerali, abbracci tra i parenti, attraversamento. Quel dovuto e sentito rapporto con la morte. Anche quella è assente finché non la si ha davanti e nel mio caso spero per me e mio figlio, il più tardi possibile.
Quindi e qui vengo al dunque, in questa dannata esigenza spasmodica, da parte degli attori e abusati artisti nel termine, di essere presenti, a questo giornaliero sciacallaggio in mercimonio di lucrare sulle disgrazie altrui, per almeno far proseguire lo spettacolo anche senza di esso, mi sono ritratto.
Comprendo le ragioni, ma non le condivido. Anzi ne provo addirittura pena per chi si produce e fastidio dell’invasione virale.
Discutere e promuovere e capire la categoria almeno da parte di chi quest’arte promuove andava fatto prima. Ma c’è un problema, noi operai e operatori dello spettacolo dal vivo, non abbiamo una coscienza, sia di classe, che della categoria.

Mimmo Borrelli in un momento de «La cupa» (le foto che illustrano quello spettacolo sono di Marco Ghidelli)

Mimmo Borrelli in un momento de «La cupa»
(le foto che illustrano quello spettacolo sono di Marco Ghidelli)

In questo momento sembra si stia verificando un paradosso: attori di successo e di fama, fama che altrettanto spesso non corrisponde al talento e alla sostanza, sembra stiano cercando il posto giusto dove accomodarsi e speculare ancor più sulla categoria (la maggior parte alla fame) e come nelle guerre, prendere poltrona in questa virtuale e televisiva proposta del teatro via etere. Unico modo possibile secondo me, ma non per far sopravvivere il teatro, che tornerà una volta esaurito questo scirocco del caos, ma per far sopravvivere l’80% degli attori di teatro, che le economie dei teatri reggono. Costoro non hanno diritti e già da prima vivevano con paghe da fame, ora e tra un po’ saranno costretti per davvero all’elemosina e a cercare un altro lavoro nell’impossibilità di perseguire il proprio.
Compito degli artisti più importanti, soprattutto quelli che se lo possono e potranno economicamente permettere, citando le azioni politiche di Gianmaria Volonté, sarà quello di arrivare ad una mediazione e giungere anche a promuovere il teatro in tv, ma interpretando la possibilità tecnologica come mezzo, non come fine.
Ovvero utilizzare la tecnologia per sostenere e aiutare una categoria. Coloro che costituiscono il cuore della vera arte teatrale e consentono (attori e tecnici precari) la realizzazione del teatro che sono poi la stragrande maggioranza dei lavoratori.
Se la condivisione di un canale pubblico, con l’aiuto e la performance di attori di fama, servirà produrre con i suoi introiti, attraverso abbonamenti on line o catodici, economie tali da permettere con l’istituzione di una cassa integrazione speciale, la salvaguardia e la sussistenza dell’intera categoria priva di fama, provata dalla fame, allora ne sarei più che d’accordo.
Magari non sarà teatro, ma sarà il modo di permettere tra qualche anno di ripartire con progetti teatrali complessi e nell’assoluta normalità.
Il teatro quello vero si fa insieme. Si fa in comunità. Si fa in tanti, si fa costituendo un mondo altrove attraverso la formazione sociale e umana di una famiglia altrove: la compagnia. Ma già in epoche senza corona era difficile fare ciò, figuriamoci ora.
Ora come sostengono saggiamente molti direttori anche a me amici, bisogna trovare una sicurezza degli astanti e degli attori, dunque per far sopravvivere non il teatro, ma il sistema teatrale, che dovrà alimentarlo in seguito, ben vengano, per motivi di distanziamento e sicurezza, unicamente monologhi e atti teatrali con pochi attori. A patto che sia una situazione di passaggio.
Come sempre non sono capace di dare soluzioni, ma compito dei poeti è suggerire dubbi, tra l’altro personalmente umani e domande; personalmente sempre senza risposta.
Cosa è urgente? Lo ripeto, dare garanzia ai lavoratori, di esistenza e futura sopravvivenza, specialmente per i molti che, non siamo ipocriti, non lavoreranno nell’immediato.
C’è anche l’esigenza da parte dei teatri che producono cultura, i quali hanno il dovere di produrre bellezza, specialmente in un momento del genere, di andare avanti; ma come deve andare avanti, soprattutto produttivamente per le dovute limitazioni è scelta assai complessa.
La misura della proiezione televisiva, ad esempio, deve determinare di necessità un’azione POLITICA: mandare avanti la complessa macchina burocratica teatrale, magari convertendo i famosi “borderò” dello spettacolo dal vivo, anche con sale vuote, nello “spettacolo virale” dal vivo.
Di pari passo però si dovrebbe anche snellire e oleare anche più velocemente l’apporto economico, ministeriale, regionale e cittadino, che con i suoi ritardi affligge sempre più l’attività dei teatri sia pubblici che privati. Quest’azione politica deve essere messa in atto per sorreggere quella stragrande maggioranza degli artisti che non lavoreranno.
Gli attori più fortunati, i quali magari guadagnano molto al cinema, riversino le loro forze, la loro immagine, la loro sapienza e la loro spinta, il loro concreto lavoro solidale e performativo per dare sopravvivenza, purtroppo non artistica, ma vitale adesso, agli gli operai del teatro. Il tutto al fine di garantire sopravvivenza artistica a costoro, in mesi di mancato lavoro.
L’incasso e le risorse devolute e fatte confluire in una sorta di cassa comune, da distribuire ai lavoratori subordinati e autonomi le cui dichiarazioni dimostrino l’esigenza.
Questo virus ci impone un’ulteriore riflessione: c’è bisogno finalmente di fare un’attenta valutazione, distinzione tra il teatro commerciale e d’intrattenimento e il teatro di indirizzo tra virgolette culturale e di per sé di senso e necessario. Teatro quest’ultimo che io amo definirlo unicamente di senso.
Il teatro è necessario in questo momento? In un altro mio scritto già a voi lettori inviato, in modo fermo, dissi che non lo è. Non lo è perché il teatro ha bisogno del contatto presente e oftalmico dell’immagine e della vivificazione e verticalizzazione nel corpo della voce e nel corpo dell’attore, della “grumosità” al presente degli accadimenti dell’azione scenica.
Contatto determinato dalla logica delle conseguenze drammaturgiche, che l’azione stessa, la quale diviene teatro nell’istante in cui si esaurisce, compie.
Parliamo della disciplina più misera e aleatoria del mondo, più sospesa e in bilico da sempre, ma che riesce sempre ad autosostenersi e alimentarsi.
Urge e sorge però un problema fondante: il teatro non può esistere, prescindere e “am-letalmente” essere … letale senza la presenza del pubblico e quale pubblico, così come Enrico sosteneva.
La sua ombra non può cadere.
Il suo eco e riverbero non può estenderne l’onda della commozione.
La sua scia spumosa di memorie non può avverarsi senza un altro corpo: quello degli astanti.
Potrebbe accadere forse in un’altra forma, che non sarebbe teatro, ma ne racconterebbe il labile ricordo vivo di esso: il radiodramma. La radio e la sua possibilità, nella mancanza del contatto visivo permetterebbe un viaggio emozionale possibile. Il corpo pulsionale della voce e il suo impatto fascinoso, potrebbero conferire alla radio, attraverso suono e musica, un ruolo importante di sopravvivenza degli echi della scena. La radio farebbe riconquistare il sogno dell’immaginazione, riposto troppo spesso nei cassetti del teatro tra virgolette pop, contemporaneo e di facile lettura.
Lo stesso Luca Ronconi, nonostante facesse dell’estetica e dell’immagine parte fondante del suo teatro, comunque sia sosteneva spesso durante le nostre chiacchierate:
che uno spettacolo funziona
quando ad occhi chiusi, suona.
Carmelo Bene dell’uso dei mezzi radiofonici, ne ha fatto scuola ed arte meravigliosa, purtroppo o per fortuna inimitabile nel suo esempio. La sua pioneristica strategia ci ha permesso di scoprire l’eccitazione di un piccolo fenomeno: la fisicità della voce, può essere presente nel suo corpo anche se trasmessa sulle onde sonore della trasmissione tecnologica, che ne alimenta addirittura e maggiormente il mistero.
Invece la diffusione visuale e visiva della materia teatrale, renderebbe inevitabile il teatro, in un evitabile teatro monco.
Tanti si sono adoperati ed hanno dibattuto su questo e sono riusciti a produrre delle opere straordinarie come Eduardo, il quale è stato capace di fissare e narrare, gran parte della sua carriera, attraverso, nonostante fossero limitanti, le realizzazioni televisive delle sue opere.
Il punto è: il teatro in questo momento, ha come dicevo, un futuro? Una materia che si occupa di prevedere il futuro, consumando il tempo presente? Se ha un futuro diverso, allora quale?

Un altro momento momento de «La cupa»  (le foto che illustrano l'articolo sono di Marco Ghidelli)

Un altro momento  de «La cupa» 

Il futuro per ora non c’è, perché non è garantito il nostro comune vissuto.
In questo momento è vietata la possibilità di aggregazione, di vedersi, di toccarsi. In questo momento non vi è uno spazio vitale, un tempo sociale che determini relazione. In questo banale sillogismo, se il teatro è relazione per antonomasia, allora non è possibile.
Faccio una provocazione prendendo in esempio un mio spettacolo come LA CUPA: non dico per il pubblico che potrebbe essere isolato, messo nei palchetti, ma come si può agire uno spettacolo tale evitando il contatto, anche salivare e promiscuo, seppur controllato in una partitura seriale e sempre uguale, tra gli attori? La risposta è semplice: sarebbe impossibile.
Questo virus comunque sia, sta aprendo anche un’altra parentesi, quella forse più interessante e di felice deviazione di percorso riflessivo, verso una questione spinosa, da sempre celata ipocritamente come fasulla, ma dentro di noi fautori e fruitori dello spettacolo dal vivo sempre saputa:
il teatro moderno purtroppo, soprattutto quello finanziato dallo stato, nei circuiti ufficiali e non, sperimentali e di trincea, tralasciando quelli commerciali, è un fenomeno assolutamente e dannatamente borghese.
Del potere e la presenza borghese.
Un fenomeno unicamente partecipativo, che fonda l’individuo sociale, il quale attraverso l’illusione di partecipazione a eventi culturali, compie il suo passaporto e percorso ipocrita e iniziatico di uomo sociale, il quale ha il dovere di andare a teatro solo per compiere un dovere sociale e non per inseguire un piacere viscerale e primordiale. Esistere.
Non viene in sala per farsi emozionare e riflettere, ma unicamente per partecipare ad un evento senza alcuna partecipazione emotiva e rituale.
È quell’atto non necessario, ma comunitario, di cui il borghese ha bisogno per sentirsi parte eletta viva e culturale di una società. Così da costituire, in quel momento, la sua definitiva elezione a soggetto borghese e partecipe della società stessa.
Ma questo processo spesso è un processo soltanto di facciata e apparente. Non è un processo dettato dal vero fuoco della conoscenza, dell’assemblea della catarsi collettiva nell’aver fede in un aedo che canta e racconta l’incapacità dell’uomo di stare al mondo.
Un processo di frequentazione non partecipativo, senza la presenza di un corpo connesso, che determina un pubblico apparentemente partecipativo, ma poco interessato se non a morfeo e alla noia del suo passare il tempo.
Risultante è la percentuale altissima di persone che durante gli spettacoli ergono ad arto ed estensione corporale e schermo tra la catarsi e la scena, l’emozione e la poltrona, uno schermo cellulare dove e soprattutto mentre, in scena vi è qualcuno eletto dal proprio silenzio alla parola. Si è in un luogo, silenti e poco attenti, agendo il riflesso incondizionato, ma evidentissimo e tracciato di voler essere altrove. Altro dato: il dormiente pubblico abbonato, sopito e infastidito, magari per troppo empatia alle pomeridiane domenicale.
Dunque una condivisa finzione totale dove l’attore si adagia, per mestiere. Il pubblico per dovere sociale.
Perché partecipare in questa gara all’inutile presenza: fa punteggio.
La responsabilità totale è comunque nelle mani di attori e produttori dell’agire scenico e dei politici, che vedono il teatro come qualcosa di futile. Noi abbiamo il dovere come dice mio padre di fare sul serio, altrimenti si finge. Mi dice sempre Tonino ’u Bbarbone:
“Figliemo nun fa teatro, nun faciarrà mai carriera, pecché fa avero.”
In questa frase che da sempre mi porto nel cuore, la realtà dipinta del nostro paese. Troppa verità in questo sistema diventa un dardo all’occhio di un Ciclope.
Il batterio virulento del dovere sociale, che non è necessario, nell’ambito dell’arte meno necessaria al mondo se non se ne sente un bisogno vitale, sta attaccando e minando chi veramente per anni ha lottato per un teatro davvero politico (e dovrebbe esserlo naturalmente), culturale (e dovrebbe esserlo naturalmente), emotivo (e dovrebbe esserlo naturalmente), empatico (e dovrebbe esserlo naturalmente).
Si è rotto un argine che era così solido e solito. L’argine del sentire e parire il cuore alla verità. Abbiamo educato con il nostro reiterato mestiere, nell’ambito del qual abbiamo perso il gioco e il sogno, il pubblico a non sognare più. Quindi è ovvio che questo pubblico vada teatro per far presenza e numero, dormire senza sognare.
Una cosa buona nell’antro del caos di questo male, forse questo virus lo farà: cancellerà completamente dalla caverna della bellezza, almeno per adesso, questo genere d’inutile partecipazione.
A teatro tornerà la fiaccola della passione per la conoscenza. Realmente con una selezione naturale verrà chi ne avrà la vera passione, il vero fuoco cerimoniale e fede.
Qualche gestore di compagnie private mi dirà: ma è proprio quel pubblico partecipativo e poco interessato che porta la maggior parte delle economie al circuito teatrale italiano.
Io non finirò mai di dirlo, l’altro tipo di riflessione va fatta sugli enti, pubblici e privati.
Cosa deve essere sostenuto dallo stato e non? Quesito che forse non avrà mai una risposta ma ho il dovere di porlo sia per me, che per il rispetto di questa possibilità di contraddittorio.
Che senso ha che lo stato sostenga “ministerialmente” un teatro commerciale che già di per sé ha introiti di consenso?
È l’annoso e irrisolvibile problema, come a chi spetta nell’intera struttura pubblica, il compito di decidere cosa è degno da sostenere in quanto arte e cosa non sostenere in quanto intrattenimento? Cosa e quale teatro è al servizio politico e morale nel suo essere amorale, della società e cosa è unicamente d’intrattenimento?
Ma dato che la politica invade e inquina con ignoranza e incapacità e corruzione entrambi gli ambiti vedremo sempre scelte artistiche pubbliche e a volte anche private, che non avranno alcuna ragione e alcun nesso e legame al valore artistico dell’opera. Tra che raramente per alcuni e felici casi.
Mi perdonerete se in questo momento sto ponendo delle domande e non delle soluzioni, forse per reminiscenze marrane ed ebraiche, che, a domanda ricevuta, indicano la terza via, ribattendo di risposta, in risposta con un’ulteriore domanda.
Domande che però erano già insite prima di questa crisi, nella difficoltà del teatro moderno:
qual è il teatro che va promosso dallo stato, qual è il teatro che non va promosso?
Positive, comunque, tutte le iniziative che mireranno a tener in vita e lo ribadisco per l’ennesima volta, da nostalgico uomo di sinistra purtroppo e da fiero figlio di operai comunisti di generazione, la salvaguardia di una categoria di tecnici e attori: il vero motore e polmone seppur infettivo dell’arte teatrale. Categoria lasciata allo sbando, quella categoria che conferisce la vera qualità al prodotto e che se non verrà assistita adesso, non potrà riprendere questo lavoro tra qualche anno.
Semplicemente non potrà riprenderlo, perché necessariamente ne farà un altro.
Perché la nostra è l’unica categoria che non ha e non avrà mai una coscienza di classe.
Siamo cani solitari. Anime derelitte e squattrinate. Abbaiamo ad una notte senza luna. Questo è insito nella contraddizione dell’uomo di spettacolo e teatro, la sua passionale spinta è egoistica, per natura. Chi produce arte, ha dei problemi inauditi col proprio ego. Deve appagarlo, stimolarlo e nutrirlo. E farebbe di tutto per soddisfarlo. Siamo dei tossicodipendenti di espressione e un tossicodipendente in astinenza … sarà sempre ricattabile per una dose anche minima di visibilità.
Ma l’overdose che risolverebbe quest’ulteriore tragedia senza morte, non è possibile sulla scena. Da qui l’oscena condanna alla dannazione dell’apparire?
VIENTO ’MPOPPA».

                                                                                                                                   Mimmo Borrelli

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4 risposte a Borrelli: «Abbiamo educato il pubblico a non sognare più»

  1. Francesco Paolo Iannuzzi scrive:

    Analisi lucidissima!
    Francesco Paolo Iannuzzi

  2. Enrico Fiore scrive:

    Sono perfettamente d’accordo.
    Enrico Fiore

  3. Fulvio Pastore scrive:

    Parole forti e chiare, senza equilibrismi diplomatici e senza rivoltose ingenuità.
    Fulvio Pastore

  4. Enrico Fiore scrive:

    Caro Fulvio,
    naturalmente condivido in tutto e per tutto il tuo giudizio.
    Enrico Fiore

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