Caro teatrante, ti scrivo

Emmanuelle Béart in un momento di «Architecture», lo spettacolo di Pascal Rambert presentato all'Arena del Sole di Bologna (la foto è di Jean Louis Fernandez)

Emmanuelle Béart in «Architecture», lo spettacolo di Pascal Rambert presentato all’Arena del Sole di Bologna
(la foto è di Jean Louis Fernandez)

NAPOLI – Caro teatrante, ti scrivo / perché mi fai incazzare anche mò. / E meno male che sei molto distante, così m’incazzo soltanto un po’. / Da quando sei ammutolito / non c’è alcuna novità. / I teatri sono chiusi ormai / ma ogni cosa ancora qui non va…
Sì, una parafrasi ironica, stavolta applicata al teatro, de «L’anno che verrà», la grande canzone di Lucio Dalla di cui già Eduardo Cicelyn si servì in queste pagine per celiare intorno alla propria quarantena forzata. Però la smetto subito: non solo tenendo conto del proverbio, che sancisce la breve durata di ogni gioco, ma anche e soprattutto in forza della gravità della situazione in atto.
Ho letto con molta attenzione, in queste settimane, le interviste rilasciate dai teatranti ai giornali. E con attenzione non minore ho ascoltato i videointerventi che hanno messo in rete. Ma, tirate le somme, mi tocca constatare che ho letto e ascoltato la solita solfa: i teatranti, sostanzialmente, non hanno fatto altro che parlare di se stessi, a partire dall’esigenza (legittima e rispettabile, certo, ma legittima e rispettabile come quella di qualsiasi altro lavoratore) che si provveda ai loro personali e individuali bisogni economici. Al massimo, e solo di sfuggita, hanno accennato ai problemi di riorganizzazione, o meglio di rifondazione, che il settore teatrale dovrà affrontare quando la diffusione del coronavirus si arresterà.
Per esempio, Alfredo Balsamo ci ha informati, in una lettera ospitata nelle pagine napoletane de «la Repubblica», che il Teatro Pubblico Campano da lui diretto «gestisce trenta teatri», che è «un’azienda sana», che dei suoi sedici dipendenti fissi e degli altrettanti a contratto «nessuno perderà il lavoro», che a nessuno di loro «sarà messo in discussione lo stipendio». Ci fa piacere, naturalmente. Ma, siccome il Teatro Pubblico Campano non è un salumificio (senza offesa per i salumifici), ci avrebbe fatto ancora più piacere se Balsamo ci avesse informati pure sul tipo di spettacolo che distribuirà nei trenta teatri del circuito quando saranno riaperti.

Alfredo Balsamo

Alfredo Balsamo

Non a caso, però, Balsamo inneggia al teatro che continuerà a raccontare le storie, «fantastiche e bellissime», di cui a suo dire avremo sempre bisogno. Non a caso perché un analogo argomento mise in campo il qualcuno che tentò di sminuire l’articolo nel quale sostenevo che si può (anzi, si deve) fare a meno del teatro autoreferenziale votato al semplice ed evasivo intrattenimento. Si tirò in ballo, allo scopo, un’affermazione di Sarah Kane: «Io credo che, se una città fosse distrutta da una bomba, la gente per prima cosa andrebbe a cercare cibo e un tetto, e non appena avesse provveduto a queste necessità, comincerebbe a raccontarsi delle storie». Ma ci si dimenticò di un piccolo particolare, che Sarah Kane si uccise. E proprio perché, evidentemente, le «storie», che lei stessa raccontava, non bastano a neutralizzare la feroce impassibilità della vita.
Noi non abbiamo bisogno di un teatro che racconta storie, a raccontare storie ci pensano già le fiction televisive. Abbiamo bisogno di un teatro che riscopra se stesso in quanto arte sociale per eccellenza, che, dunque, inneschi riflessioni capaci d’innescare a loro volta comportamenti intesi, per l’appunto, a far crescere la società. Abbiamo bisogno di un teatro che, perciò, scelga finalmente quale può e dev’essere il suo posto nel mondo. Abbiamo bisogno, in breve, di un teatro che risponda almeno ai seguenti tre interrogativi fondamentali: che tipo di pubblico intende raggiungere, considerati anche un fenomeno come l’analfabetismo di ritorno e il fatto che, di conseguenza, una più che alta percentuale d’italiani non è in grado di capire un testo, anche un semplice articolo di giornale? che tipo di messaggio intende mandare a quel pubblico? che tipo di rapporto intende costruire con gli spettatori, segnatamente quelli giovani che oggi latitano, al di là dell’incontro occasionale costituito dallo spettacolo?
Non mi soffermo, è ovvio, sul fatto che proprio la lacerazione del tessuto comunitario indotta dal coronavirus ha reso ancora più impellente la necessità che il teatro riscopra se stesso in quanto arte sociale. E riassumo quanto detto sinora con l’ossequio a una delle lezioni decisive lasciateci da quel poeta della scena contemporanea che fu Antonio Neiwiller: la lezione, che di recente mi ha ricordato Raffaele Di Florio, sull’importanza della «relazione vitale», che «teatro non è, ma lo alimenta».
Alla luce di tutto questo arrivo, adesso, al Napoli Teatro Festival Italia. Il suo direttore, Ruggero Cappuccio, ne ha annunciato lo slittamento a settembre. Ma c’è da chiedersi in che modo potrà mai svolgersi se, com’è assai probabile, resteranno in vigore anche in autunno le attuali disposizioni in materia di distanziamento sociale. Ne ho parlato con Vincenzo Salemme, uno che di platee piene se ne intende. Visto che bisogna garantire la distanza di almeno un metro fra uno spettatore e l’altro e visto che, mettiamo, la larghezza di una poltrona è di mezzo metro, significa che intorno a uno spettatore dovrebbero essere lasciate vuote due poltrone alla sua destra, due poltrone alla sua sinistra, due poltrone dietro di lui e due poltrone davanti a lui. In tutto fanno otto poltrone vuote per una sola poltrona occupata. E poi, come farebbero gli attori a recitare certi testi? Romeo, poniamo, resterebbe a vita sotto il balcone di Giulietta.

Ruggero Cappuccio

Ruggero Cappuccio

Infine, il programma. Nell’illustrarlo Cappuccio ha sottolineato, come volevasi dimostrare, soprattutto lo spettacolo «Resurrexit Cassandra», testo suo e regia di Jan Fabre. E dal momento che Fabre davvero non rappresenta una novità per il Napoli Teatro Festival Italia e che il testo di Cappuccio parla di «una Cassandra che torna sulla terra al giorno d’oggi e invita l’umanità a comprendere il pericolo che il pianeta muoia», io subito ho ripensato ad «Architecture», lo splendido spettacolo di Pascal Rambert che vidi il 22 febbraio all’Arena del Sole di Bologna, nell’ambito del prezioso Vie Festival organizzato da Emilia Romagna Teatro.
È lo spettacolo che il 4 luglio dell’anno scorso aprì nella leggendaria Cour d’Honneur del Palazzo dei Papi il festival di Avignone. E avvalendosi di un cast d’eccezione capitanato da Emmanuelle Béart e Jacques Weber, svolge il tema di quell’Europa che, nonostante la sua ricchezza spirituale e culturale, non fu capace di fronteggiare il dilagante orrore che avrebbe portato all’Anschluss. Parliamo della stessa Europa che oggi non sa fronteggiare, unita, la dilagante minaccia del Covid-19.
Debora Pietrobono, responsabile dell’ufficio stampa di Emilia Romagna Teatro, mi ha detto della sua prima Pasqua a Bologna, lontano dalla famiglia che vive a Roma. E mi ha raccontato dei vicini meravigliosi che le hanno regalato il loro pranzo, lasciandoglielo sulla porta.
A me manca molto, Bologna. Mi manca la sua stazione, con lo squarcio nel muro a ricordare la bomba fascista del 1980. Mi mancano i suoi portici, sotto i quali Lucio Dalla lo incontri sempre, anche se non lo vedi. Mi mancano le facce e i nomi del Sacrario dei Partigiani, davanti al quale mi fermo ogni volta che passo in Piazza del Nettuno. E un pensiero strano mi danza in capo: forse c’è un nesso fra la scelta di Emilia Romagna Teatro di presentare in «prima» nazionale uno spettacolo come «Architecture» e quel pranzo di Pasqua lasciato sulla porta di Debora.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 22/4/20)

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22 risposte a Caro teatrante, ti scrivo

  1. Davide Iodice scrive:

    Caro Enrico,
    sono perfettamente d’accordo: anche per me il teatro o è sempre “sociale” o non è teatro, o è sempre “politico” o non è teatro.
    Spero di essere in grado, insieme a tanti, di rispondere sulla scena alle domande che poni.
    Davide Iodice

  2. Enrico Fiore scrive:

    Caro Davide,
    della tua risposta sono sicuro. Speriamo, davvero, che sia anche quella di “tanti”.
    Enrico Fiore

  3. Iaia Forte scrive:

    Caro Enrico,
    bellissimo articolo, è un conforto leggere le tue parole.
    Iaia Forte

  4. Enrico Fiore scrive:

    Grazie, cara Iaia. Per me è un conforto sapere che, sia pure in pochi, fra noi ci ritroviamo sempre.
    Enrico Fiore

  5. Matteo Palumbo scrive:

    Carissimo Enrico,
    volevo scriverti da molto tempo. Per un motivo generale. Non intendo riferirmi a una questione specifica o a un articolo tra i tanti magnifici interventi che continui a pubblicare: un modello di intelligenza e di analisi drammaturgica.
    Il mio scopo è piuttosto un altro. Vorrei offrirti una testimonianza minima della mia ammirazione per il lavoro che hai fatto e che continui a fare, osservando gli avvenimenti di quell’avventura irripetibile che è il teatro. Durante un numero lunghissimo di anni, hai raccontato una parte della tua biografia e insieme hai contribuito a ricostruire la nostra. Hai osservato attori, autori e registi molteplici. Hai saldato la storia di una grande esperienza estetica con la storia generale che la circonda e che ogni volta lascia la sua impronta.
    Il teatro che hai conosciuto e studiato è un pezzo fondamentale del nostro immaginario. Tu hai contribuito a spiegare in che modo questo accada. Sei stato un archivista quotidiano delle nostre emozioni: esaltando le invenzioni che scoprivi, ma anche giudicando senza pietà quello che appariva senza idee, sciatto o pretenzioso. Il mio è un omaggio al lavoro che hai fatto e che continui a svolgere dal tuo osservatorio. Grazie per tutti questi anni. Un abbraccio fraterno.
    Matteo Palumbo

  6. Enrico Fiore scrive:

    Carissimo Matteo,
    dovrei risponderti prendendo in prestito le parole con cui, immancabilmente, Mariangela Melato cominciava le telefonate che mi faceva subito dopo aver letto le mie recensioni che la elogiavano: “Lei mi vizia troppo”. Ma, in realtà, io non voglio ringraziarti tanto per gli elogi commoventi che mi fai e l’apprezzamento (di alta caratura, visto che viene da uno come te) del lavoro che ho svolto, quanto per la testimonianza preziosa che rendi circa un piccolo gruppo di persone, noi, che vissero a lungo a Castellammare, insieme fecero delle cose e poi si divisero, magari non incontrandosi più per anni e anni, ma puntualmente finirono per ritrovarsi. Come a me è avvenuto da qualche tempo con il tuo omonimo Matteo Cosenza.
    Ci siamo ritrovati a scrivere entrambi per il “Corriere del Mezzogiorno”, grazie alla stima che ci ha manifestato il suo direttore Enzo d’Errico. E ogni tanto quell’altro Matteo mi manda un reperto pescato nel proprio “cascione”, ultimamente una fotografia del suo matrimonio in cui compaio anch’io. Così ripenso a certe esperienze che ci videro uniti, io, tu e lui. Come la cura del periodico “Cronache” voluto dal Partito Comunista di Castellammare.
    Le riunioni di redazione si tenevano, per l’appunto, a casa di Matteo Cosenza. E capitava spesso che passasse davanti a noi suo padre Saul, che, pur essendo assurto ai vertici del Partito, fino all’ultimo non smise mai, da operaio dei cantieri navali, di diffondere ogni mattina “l’Unità”. Quando passava e ci gettava uno sguardo fugace, con quella sua aria di burbero benefico, coglievo sempre sul suo volto un lieve, dolcissimo sorriso. E sono stato sempre certo che in quel sorriso c’era tutto l’orgoglio dell’indomito militante di vedersi proiettato in quella sparuta pattuglia di giovani che cercavano di capire e di tentare nuove strade per cambiare la società.
    Non a caso, dunque, Matteo Cosenza mi ha dedicato sulla sua pagina di Facebook parole assai simili alle tue. Ed ecco, carissimo Matteo. Nel nostro tramonto (e il discorso vale soprattutto per me, che sono il più anziano) possiamo essere certi e a nostra volta orgogliosi di una sola cosa: nel mondo non ci siamo passati, ci siamo stati.
    Ti ricambio l’abbraccio, anch’io con un forte sentimento di fraternità.
    Enrico Fiore

  7. Barbara Basso scrive:

    Come sempre leggerti apre cuore e mente, maestro.
    La tentazione dell’ombelico in cui i teatranti, come li chiami, rischiano di incappare, specie in questo momento così drammatico per tutti (per il loro mondo forse anche di più), è comprensibile. L’ombelico è umano. Ce lo abbiamo tutti. Forse il discrimine sta nel chi frugandoci dentro riesce ad andare oltre e ad affacciarsi – e farci affacciare con lui/lei – sull’abisso, che sarà sicuramente oscuro, ma che può rivelare anche sprazzi inattesi di luce e di pura gioia, di vero divertimento (scoperte che implicano però un atteggiamento attivo da parte di noi spettatori, un’educazione e una predisposizione mentale che si forma con l’esperienza, la lettura, il tempo, la curiosità soprattutto!), e chi invece rimane in superficie, a tediarci con storie raccontate (in scena e non) in maniera trita e ritrita, o peggio gratuitamente cervellotiche e sterili, il cui comune peggior difetto è, secondo me, insieme all’irresponsabilità morale, l’essere di una noia ammorbante…
    Chiudo con l’augurio che preferisco in questi giorni: a presto!
    Barbara Basso

  8. Enrico Fiore scrive:

    Faccio mio quell’augurio, cara Barbara: a presto!
    Enrico Fiore

  9. Debora Pietrobono scrive:

    Caro Enrico,
    sempre bello leggerti, e grazie per la tua capacità di vedere un nesso tra “Architecture” e un pasto lasciato sulla porta. Confortante sapere, e in questi giorni ancor di più, che quello spettacolo è stato nel teatro in cui lavoro e che quel pasto sia stato lasciato per me.
    Spero a presto in quel di Bologna!
    Debora Pietrobono

  10. Enrico Fiore scrive:

    Sì, arrivederci a Bologna, cara Debora. Spero anch’io al più presto.
    Enrico Fiore

  11. Andrea De Rosa scrive:

    Caro Enrico,
    questa tua riflessione è ricca di spunti interessantissimi, che mi hanno stimolato a scriverti.
    Mi sono avvicinato al teatro in un momento in cui a Napoli (erano i primi anni 90) si cercava di allargare lo sguardo al di là delle fatidiche quattro mura. Il teatro sembrava allora non solo la disciplina capace di contenere, elaborare e rimescolare al suo interno le altre arti (la pittura, il cinema, la danza, la fotografia, la performance, la musica), ma anche la disciplina che meglio cercava di rispondere alla complessità di tutti quegli stimoli, senza pregiudizi e senza preclusioni.
    I testi teatrali “classici” potevano essere finalmente ripensati, rielaborati, riscritti. Un testo teatrale poteva anche essere un romanzo, un saggio, una canzone, un film, un’opera lirica. La lingua poteva essere contaminata, tradita, sperimentata, finanche negata. Il concetto di una drammaturgia costruita non solo attraverso le parole, ma con il concorso di tutto quanto può prendere vita su un palcoscenico (a partire dalle luci per finire all’uso di un oggetto), diventò sempre più importante e centrale.
    Ho sempre sofferto quando poi, in seguito, nel corso del mio lavoro, ho incontrato quelli che,
    sempre più spesso negli ultimi anni, dicevano: “il teatro è questo”, “il teatro è quello”, “il teatro si fa così” e, soprattutto, “il teatro NON si fa così”, spesso accompagnando la perentorietà di queste affermazioni con infarciture retoriche insopportabili (sono apparsi sulle bocche di tutti i famosi spettacoli “urgenti” e “necessari”, le due categorie concettuali che più lontane non si potrebbero immaginare da un’opera d’arte, se è vero quello che dice Kierkegaard quando in “Aut Aut” scrive che la categoria della “necessità” uccide qualunque creazione artistica).
    Ancora oggi, io non so che cosa sia il teatro, non lo voglio sapere, non mi fido di quelli che dicono di saperlo e che proclamano delle solenni verità.
    Ma cosa c’entra tutto questo con il Covid-19 e la crisi che stiamo vivendo? Io credo che questo sia il momento giusto per cercare di riaprire i giochi senza rinchiudersi in facili schematismi e piccole, vecchie convinzioni. È il momento giusto per allargare lo sguardo, senza pregiudizi, senza paura.
    In questi giorni ho letto con grande interesse alcuni articoli pubblicati dal New York Times in cui si riflette su come il teatro stia cercando di rispondere alle difficoltà in cui si è venuto a trovare. In questi articoli si racconta di alcune esperienze artistiche molto interessanti, definite “immersive experiences”, situate al limite tra il teatro e altre discipline. Si fa riferimento in particolare a un sito che si chiama “No proscenium”, che propone delle “remote and online experiences”, spettacoli che avvengono, come a teatro, in un certo giorno e a una certa ora, dal vivo, ai quali si può assistere da remoto, cioè collegandosi attraverso internet. Non si tratta di semplici spettacoli teatrali ripresi e mandati in onda, quanto di esperimenti che puntano a integrare, rimescolare e approfondire gli strumenti che abbiamo in questo momento a disposizione, per permettere allo spettatore di assistere a qualcosa che avviene in quel preciso momento, sia pure a molti chilometri di distanza, ma con una immersività e una partecipazione che puntano a vincere e a superare quella distanza.
    Ho assistito a un paio di performance (pagando un regolare biglietto di 8 dollari), una delle quali non esito a definire memorabile. È teatro quello? Non lo so, francamente. Quello che voglio dire, in definitiva, è che concordo pienamente con te quando scrivi che “abbiamo bisogno di un teatro che riscopra se stesso in quanto arte sociale per eccellenza”, ma vorrei aggiungere anche che
    la socialità dei prossimi mesi (speriamo pochi, ma temiamo tanti) dovremo inventarcela anche
    laddove essa ci verrà negata per “causa di forza maggiore”. E la scoperta e l’invenzione di questa “nuova socialità” non ce la darà nessun ministro, perché non è affar suo, ma è un compito che
    riguarda, solo ed esclusivamente, gli artisti. Purché si sia disposti ad aprire lo sguardo, con
    coraggio.
    Andrea De Rosa

  12. Vincenzo Salemme scrive:

    Caro Enrico,
    ho letto con molto interesse il tuo richiamo ai teatranti per spronarli alla ricerca di soluzioni strutturali profonde per far fronte alla sfida epocale di questo terribile periodo di sospensione di ogni attività che necessita di un contatto fisico, al momento proibito dall’emergenza sanitaria.
    Provo a darmi qualche risposta e, già prima di iniziare a scrivere queste righe, confesso di essermi posto mille domande relative al futuro lavorativo che mi riguarda. Cioè, prima di ogni considerazione umanistica, mi chiedo se e quando sarà possibile recitare parole o versi, quando potremo intonare ballate e canzoni, quando i corpi di attrici e attori potranno tornare a intrecciarsi, incrociarsi, sfiorarsi, fronteggiarsi, spingersi tra loro, quando tutto ciò che, similmente alla vita, fluisce in ogni istante dinanzi ai nostri sensi potrà nuovamente diventare teatro e illuminarsi sui palcoscenici di tutto il mondo per regalare sorrisi e risate, lacrime e passione a quel numeroso gruppo di persone che chiamiamo pubblico.
    Parto dall’esperienza che a dicembre mi ha visto andare in diretta televisiva con tre mie commedie. Un’esperienza che, oltre ad essere stata davvero entusiasmante, mi ha insegnato moltissimo. Prima di tutto perché il fatto di provare tre commedie contemporaneamente richiede agli attori uno sforzo di razionalizzazione e di controllo che, a mio parere, giova moltissimo alla recitazione, rendendola più fresca, veloce e lucida. In una parola, professionale.
    Il fatto poi di recitare in diretta, in un teatro che è pure uno studio televisivo, ha regalato alle commedie una nota di leggerezza e di modernità che ha incontrato il favore non solo del pubblico in sala ma anche del pubblico a casa.
    Allora, in questi giorni, mi sto chiedendo: perché non ripartire proprio dalla tivù?
    Sappiamo bene che, quando si potranno riaprire i teatri, bisognerà tenere in conto tutte le precauzioni che abbiamo imparato a usare in questi lunghi mesi di privazioni e distanze. Per esempio: in una sala di mille posti ci potranno entrare non più di trecento spettatori. Con tutti questi limiti dettati dai protocolli di sicurezza sanitaria, che tipo di spettacoli potremo proporre? Io, per esempio, se gli incassi non potranno più essere quelli che ho avuto la fortuna di percepire negli ultimi venti anni, come farò? Dovrò proporre solo spettacoli che non superino il terzo degli attori e dei tecnici che ho utilizzato fino all’avvento del contagio? Scenografie e costumi che prevedano il riutilizzo dei materiali delle stagioni precedenti? E teniamo pure conto che gli attori e le attrici in scena non potranno stare troppo vicini gli uni agli altri.
    Insomma, bisognerà riscrivere tutto, persino i grandi classici? Potremo fare Eduardo rispettando anche in scena le distanze dettate dall’OMS? Magari ne rispetteremo solo i testi, costretti a utilizzare i microfoni migliorandone la resa per renderli sempre più simili alla voce naturale così da consentire agli attori di non dover urlare per «portare» la voce fino allo spettatore più lontano? Ci consentirà l’uso della tecnologia di preservare l’intimità piccolo-borghese di Cechov e di non rendere nociva l’epicità vocale di Brecht? Ma basteranno i teatri da soli, e con il divieto di essere riempiti, a farci sopravvivere? Come riusciremo a pagare le donne e gli uomini che inchiodano o mettono spine nelle prese, che recitano o cantano, che truccano e vestono e dipingono senza l’incasso serale?
    Ecco perché ho pensato alla mia esperienza televisiva. Ed ecco il punto di partenza della mia proposta: se la televisione dedicasse canali telematici al teatro? Ogni teatro potrebbe avere il suo canale televisivo, il suo cartellone e i suoi spettacoli in abbonamento, tutte le sere, rigorosamente in diretta, come a teatro, riprendendo la compagnia mentre fa lo spettacolo in teatro. Gli spettatori potrebbero comprare per una cifra da stabilire (5 euro, 10, non so) lo spettacolo, per vederlo da casa. Non escluderei il mondo del web. Anche il web, con le sue numerose piattaforme di comunicazione, potrebbe essere di grande aiuto.
    Vedere una commedia in diretta su uno smartphone! Non so se questo potrebbe essere un punto di partenza e non so se farà storcere il naso a chi ama il teatro nella sua totale purezza espressiva. Ma credo che adesso sia necessario dare una soluzione a chi di questa passione ha fatto anche un mestiere per vivere, a tutte quelle persone che non hanno molto tempo e vogliono una risposta subito. La mia è solo un’idea. Non so quali e quante potrebbero essere le soluzioni. So soltanto che il teatro è sopravvissuto a tutte le tragedie e a tutte le trasformazioni perché credo sia la forma espressiva che meglio e più delle altre debba indirizzare l’umanità verso i nuovi approdi. E credo che il teatro anche stavolta ci insegnerà la nuova filosofia da studiare, i nuovi valori da seguire e rispettare.
    Il teatro è il progetto del mondo. In un edificio si assegnano ruoli e si decide di stare in silenzio, di ascoltare, di applaudire e ridere e piangere, il teatro è l’unico luogo dove cento o mille persone decidono insieme quale sarà il codice che tutti, una volta varcata la soglia che lo separa dalla realtà, vorranno utilizzare quella sera. Sarà così anche stavolta, decideremo tutti insieme cosa fare. Però dobbiamo agire. E presto. Mando un abbraccio al popolo dei lavoratori dello spettacolo, e gli auguro concretezza e forza di volontà.
    Vincenzo Salemme

  13. Raffaele Di Florio scrive:

    Gentile Fiore,
    in merito a quest’appassionante articolo, continuo a pensare che per la maggior parte dei lavoratori dello spettacolo dal vivo ancora non sia chiaro che cosa è accaduto con il Covid-19. Stanno ancora a rilasciare interviste che hanno il sapore del “Si salvi chi può!”.
    Invece, parafrasando Wittgenstein, si deve tacere! Almeno per il momento, perché questo è il momento del silenzio.
    Da “lavoratore” sento che il Primo Maggio 2020 potrebbe essere una data importante per il prossimo futuro. E per tale ragione, sperando di far cosa gradita, condivido una lettera aperta al Maestro Ennio Morricone, a mio avviso l’unico rappresentante del mondo artistico italiano al livello planetario “dell’ esibizione dal vivo”. È una lettera che potrebbe unire tutti noi operatori culturali con l’unica cosa che ci accomuna: l’ASSENZA.

    “Gentile Maestro,
    intanto, come sta?
    Mi presento: mi chiamo Raffaele Di Florio e sono un regista e scenografo teatrale: un operatore culturale senza attività, secondo la dicitura di questi giorni di “clausura”.
    Le scrivo perché ho molto apprezzato il suo intervento circa “l’entusiasmo” manifestato dagli italiani nell’ “esibirsi” dal balcone, ed anche per chiederle un suo autorevole intervento per il prossimo futuro.
    Il governo sta varando delle misure per la Fase 2, ma sono insufficienti e deboli quelle applicate al mondo dello spettacolo dal vivo.
    Io vorrei assistere a un concerto sinfonico non in un palchetto da solo o in una poltrona di platea con accanto posti vuoti per esigenze sanitarie.
    Io vorrei andare all’Arena di Verona o al Teatro Greco di Siracusa ed essere uno delle migliaia di spettatori che affollano le gradinate e non accontentarmi di essere un privilegiato tra poche decine di spettatori presenti.
    Se questo non è possibile, va bene. E allora tutto il mondo dello spettacolo si fermi in un SILENZIO TOTALE, fino a quando non ci saranno le condizioni adeguate per la ripresa dell’attività.
    Questo comporterebbe che i fondi destinati al FUS, alle manifestazioni culturali e quant’altro dovranno essere il reddito che consentirà ai professionisti dello Spettacolo di “CAMPARE” fino al ritorno alla normalità.
    Le scrivo perché quelle proposte dagli organi competenti (teatro a distanza, canali televisivi a pagamento e chi più ne ha più ne metta) sono soluzioni “imbarazzanti” e preoccupanti, che si inoltrano in un sentiero che potrebbe portare alla deriva.
    Sono certo che alcune soluzioni possono avere un loro valore in una situazione di normalità e nell’ambito di una scelta fra “varie offerte”, ma la peculiarità del Teatro è la “relazione vitale” tra spettatori ed esecutori, è il presente che si dilata, è un tempo astratto che viene a trovarci e ci fa compagnia.
    Auspico che Lei faccia un appello al mondo culturale, invitando al SILENZIO, e promuoverei il 1° maggio 2020 come “la giornata del Vuoto Culturale”, come inizio di una lunga assenza da parte di tutti gli operatori culturali.
    Sperando di aver fatto cosa gradita, resto a disposizione.
    Cordiali saluti”.
    Raffaele Di Florio

  14. Enrico Fiore scrive:

    Sono perfettamente d’accordo, caro Raffaele. Non è proprio il momento, per i teatranti e gli operatori dello spettacolo in genere, di continuare a crogiolarsi nel narcisismo e nello sterile e ormai insopportabile vaniloquio di sempre. Stessero zitti, occupando il tempo sospeso che ci è imposto a pensare.
    Enrico Fiore

  15. Patrizio Rispo scrive:

    Condivido quanto scritto da Raffaele Di Florio! Ma la questione merita una discussione fatta non da un solo punto di vista, e in questo caso i punti sono più di uno: c’è quello degli artisti, ora messi in ginocchio, quello dei teatri privati e quello dei teatri pubblici.
    Aprire ad ogni costo per conservare la fidelizzazione del pubblico e garantire il mantenimento della programmazione, anche con prove di spettacoli da tenere pronti per il momento della ripartenza; cercare di sostenere attori e tecnici inventando turni e sostituzioni nei ruoli (una volta gli attori scritturati erano tenuti a imparare due ruoli per eventuali sostituzioni)… È tutto da reinventare, e credo vada fatto insieme e confrontandoci. E aspettare, senza il rischio di evaporare, che ci sia dato di nuovo il piacere del rito teatrale, dello scambio di emozioni con e tra il pubblico.
    Patrizio Rispo

  16. Cristina Donadio scrive:

    Enrico caro,
    ti scrivo con un po’ di ritardo, dopo aver letto le tue preziose e illuminanti considerazioni sullo stato delle cose in cui noi teatranti, funamboli abituati a galleggiare nel vuoto, ci ritroviamo… lo faccio con ritardo perché non è facile, in questa sospensione irreale, mettere a fuoco pensieri reali… e c’è sempre il pericolo di cadere nel vittimismo e nella banalità. Come ho già detto in più di un’occasione, questo è il momento – per noi, artisti sotto la tenda di un circo, perplessi – di rifugiarci nelle parole che ci hanno regalato Enzo Moscato e Antonio Neiwiller e Leo de Berardinis e Carmelo Bene e Artaud e Genet e Majakovskij… parole che devono diventare il sentiero da percorrere oggi più che mai per… l’anno che verrà, e per scongiurare lo spettro di un teatro “da remoto”: sarebbe un virus molto più letale del Covid-19…
    Cristina Donadio

  17. Enrico Fiore scrive:

    Appunto, caro Patrizio. Si tratta di aspettare, e – lo ripeto – d’impiegare il tempo di quest’attesa forzata tacendo e, soprattutto, pensando.
    Enrico Fiore

  18. Enrico Fiore scrive:

    Cara Cristina,
    non posso che essere d’accordo circa le “guide”, illuminate e illuminanti, che tu individui in vista del cammino da percorrere verso il teatro (si spera in tutti i sensi nuovo) che verrà.
    Enrico Fiore

  19. Enrico Fiore scrive:

    Caro Vincenzo,
    hai perfettamente ragione quando dici che “il teatro è il progetto del mondo”. I teatranti debbono un buona volta convincersi che sono impegnati, sempre, in un processo di costruzione, con tutte le incognite e tutti i rischi che questo comporta. Non possono continuare a illudersi di far parte di un mondo già definito, e che, per giunta, s’identifica assolutisticamente con loro. Assai opportuno, perciò, è il tuo richiamo finale alla “concretezza”.
    Enrico Fiore

  20. Enrico Fiore scrive:

    Caro Andrea,
    hai centrato perfettamente il cuore del discorso: il nuovo teatro, che speriamo possa venire dopo la sconfitta del Covid-19, non potrà che identificarsi con la “nuova socialità” che nel frattempo avremo messo a punto.
    Enrico Fiore

  21. Carmine Borrino scrive:

    Leggerla è sempre molto stimolante, anzi, direi, incoraggiante per noi più “giovani”. In questi giorni ho ristudiato “L’arte della commedia” di Eduardo De Filippo, e insieme con il suo articolo mi ha dato la giusta grinta per non mollare. Credo che questo momento di fermo forzato sia una grande occasione per migliorare il nostro “sistema teatro” . Il teatro è della “polis” ed è un processo collettivo. Grazie e buon teatro.
    Carmine Borrino

  22. Enrico Fiore scrive:

    Grazie a lei, caro Carmine, per la stima che mi manifesta. Sì, è vero, il teatro è della “polis”. E proprio perché s’identifica con la collettività, tocca a noi tutti il dovere di preservarne il futuro.
    Enrico Fiore

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