Hebbel, quell’Eduardo nato in Germania

Friedrich Hebbel

Friedrich Hebbel

«Ein Weib zu ihrem Mann: ja, es ist wahr, nur eins dieser drei Kinder ist von Dir, aber ich sage Dir nicht, welches, damit Du die andern nicht schlecht behandelst».
In italiano il passo suona: «Una donna a suo marito: sì, è vero, solo uno di questi tre bambini è figlio tuo, ma non ti dico quale perché non voglio che tratti male gli altri». Non si discute, però, di una traduzione in tedesco di «Filumena Marturano». È il frammento 4149, datato «Vienna, 18 aprile 1847», così come compare nell’edizione dei «Diari» («Tagebücher Bd. 3, 1845-1854») di Friedrich Hebbel pubblicata a Berna nel 1970.
Friedrich Hebbel, oggi quasi completamente dimenticato, fu – per l’appunto alla metà dell’Ottocento – tra i più importanti e accorsati poeti e drammaturghi che vantasse la Germania. Scrisse tragedie come «Judith», «Maria Magdalene» e «Gyges und sein Ring», che trasmettevano una sfiduciata visione del mondo e della storia per riassumere la quale venne coniato il termine «pantragismo». Ma se non ottenne giudizi lusinghieri tanto nichilismo, in compenso ne toccò di addirittura entusiastici ai «Diari».
Kafka, per esempio, dichiarò di averli letti «tutti d’un fiato» e di considerarli fra i «libri che mordono e pungono». E gli aforismi che in essi vengono dispensati a piene mani – insieme con le confessioni autobiografiche, le meditazioni filosofiche e le spietate riflessioni sull’opinabilità della giustizia – collocano Hebbel accanto ai vari Lichtenberg, Kraus e Canetti.
Ora, il frammento citato compare in tutte le antologie italiane ricavate dai «Diari»: da quella curata nel 1912 da Scipio Slataper a quella recentissima («Giudizio Universale con pause») uscita per i tipi dell’Adelphi a cura di Alfred Brendel, passando per la silloge del 2009 con la prefazione di Claudio Magris. E sorprende che non ci abbia fatto caso alcuno degli studiosi di storia del teatro e, in particolare, dell’opera di Eduardo De Filippo. Ma l’interrogativo principale è il seguente: che cosa aveva in mente, Hebbel, quando scrisse quell’appunto, si riferiva a un fatto di cronaca o al tema di un dramma da comporre?

Eduardo De Filippo

Eduardo De Filippo

Qualche lume, forse, verrà dalle appassionate ricerche che sta conducendo in proposito Gigi Spina, per lunghi anni fra i più valorosi docenti della «Federico II». Ma passiamo intanto a Eduardo. È assai improbabile, se non impossibile, che abbia conosciuto Hebbel e, nella fattispecie, i «Diari» in questione. E allora possiamo spiegarci la strabiliante identità fra la sua «Filumena Marturano» e l’appunto dell’autore tedesco, precedente di quasi un secolo, soltanto in due modi, l’uno molto serio e l’altro scherzoso.
Possiamo, cioè, pensare alla persistenza nel teatro universale, attraverso le epoche e al di là di esse, di un rapporto unico e straordinariamente forte e totalizzante come quello che esiste fra la madre e i figli, anche contro il maschio. E immediato, fatte le debite differenze, sorge al riguardo il paragone con il mito di Medea. Ma, d’altra parte, sappiamo – per tornare a Hebbel – che per un certo periodo visse a Napoli, dove ricavò l’impressione più intensa della natura meridionale da un’ascensione al Vesuvio. E sappiamo pure che aveva un carattere tremendo, fra l’orgoglioso e l’irritabile, e che visse in una famiglia difficile.
Nei «Diari» si legge, infatti: «Com’è stata cupa e desolata la mia infanzia! Mio padre in realtà mi odiava, anch’io ero incapace di amarlo». E da qui, evidentemente, discende l’incomunicabilità fra i personaggi protagonisti delle tragedie del Nostro. Ma insomma, vuoi vedere che Eduardo era una reincarnazione di Hebbel?
Scherzo solo fino a un certo punto, però. Con la reincarnazione abbiamo a Napoli un commercio non trascurabile. Non sono pochi, mettiamo, coloro i quali son convinti che Roberto De Simone sia una reincarnazione di Pergolesi e di Gesualdo da Venosa. E se per quanto concerne Pergolesi non posso dir niente, per ciò che attiene a Gesualdo sono in grado di fornire una testimonianza diretta.
In un rovente pomeriggio di agosto del 1990, andammo in macchina – io, Roberto e il caro, indimenticabile Mico Galdieri – a vedere nella Certosa di Padula la prova generale de «L’ammalato per apprensione». Roberto, infagottato in un cappotto a causa dei reumatismi, ci obbligò a tenere i finestrini ermeticamente chiusi. Ed ecco che, nel calore asfissiante, presero corpo le visioni, come tra le sabbie del deserto. Passando per Serradarce, De Simone parlò delle «maciare» che liberano dalla possessione diabolica; e poi cominciò a sciorinare, in latino, gli atti del processo contro Gesualdo.
Ce lo dicemmo dopo, io e Mico: a parlare era Roberto De Simone o il principe di Venosa redivivo?

                                                                                                                             Enrico Fiore

(«Il Mattino», 20 dicembre 2013)

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