Celebrazione del ricordo

Veronica D'Elia e Paolo Romano Sha-One in un momento di «Mal'essere», lo spettacolo di Davide Iodice riproposto online dallo Stabile di Napoli (la foto è di Pino Miraglia)

Veronica D’Elia e Paolo Romano Sha-One in «Mal’essere» di Davide Iodice, riproposto online dallo Stabile di Napoli
(la foto è di Pino Miraglia)

NAPOLI – Riporto la riflessione pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Sempre più spesso, in questi giorni afoni, mi torna in mente il canto partigiano «I crucchi». Comincia con un sogno, «Questa notte mi sono insognato / che scendevo giù in città: / c’era mia mamma vestita di rosso / che ballava col mio papà», e finisce con una constatazione, «Se non ci ammazza i crucchi (i tedeschi, n.d.r.), / se non ci ammazza i bricchi (i dirupi, n.d.r.), / quando saremo vecchi / ne avrem da raccontar!».
Ora, io non mi ritrovo nell’inizio di quel canto: perché adesso sono come lo «straniero» di Moustaki, sono ancora capace di sognare ma non sogno più; e invece mi sento perfettamente in sintonia con il suo epilogo. Non mi hanno ammazzato i «crucchi» in vario modo travestiti (poniamo, da spie dei colonnelli greci o da squadristi durante la «rivoluzione dei garofani» in Portogallo) e i «bricchi» altrettanto variamente configurati (per esempio, la foresta tropicale di Suva che attraversai da solo o certe taverne malfamate di Noumèa). Anzi, in una di queste ultime trovai attaccata al muro la più bella preghiera che conosca: «Mio Dio, / dammi la salute a lungo, / dell’amore di tanto in tanto, / del lavoro non troppo spesso, / ma del beaujolais sempre». E così, non avendomi ammazzato niente e nessuno, son potuto diventare indiscutibilmente vecchio e, perciò, davvero ne ho da raccontare.
Infatti – avvolto dalle nebbie suscitate dal coronavirus come Thomas Gray da quelle vaporanti dai suoi adorati cimiteri – non faccio, appunto, che raccontare, grazie all’ospitalità che benevolmente mi concede Enzo d’Errico, direttore di questo giornale. E in particolare, vado edificando una mia personale Spoon River. Ma, naturalmente, sto attento a non accogliervi «lapidi» raccomandate da narcisismi o da velleità consolatorie, bensì soltanto «stele» imposte dalla cronaca. Come nei casi del ricordo di Tadeusz Kantor e di quello di Sergio Bruni, innescati dai videointerventi postati da Roberto Andò e Marino Niola nell’ambito del «Diario della quarantena» messo in rete dallo Stabile di Napoli e relativi, rispettivamente, alla necessità ineludibile di ripensare il teatro e alla valenza simbolica dei canti sui balconi.

Davide Iodice (foto di Riccardo Siano)

Davide Iodice
(foto di Riccardo Siano)

Confido, di conseguenza, che davanti alle «lapidi» e alle «stele» della mia Spoon River possano soffermarsi anche altri. E nel merito ho avuto qualche riscontro significativo. Mi limito, qui, a citare il commento che circa i «fantasmi» di Carmelo Bene e di Kantor da me evocati mi ha mandato Davide Iodice, regista di uno degli spettacoli, «Mal’essere», riproposti online dal nostro Stabile.
Ha scritto Iodice: «I tuoi fantasmi sono anche i miei. Di Carmelo forse ti ho detto in passato, di quando lavoravo come assistente scenografo sia per il “Pinocchio” che per il “Macbeth Horror Suite”: in uno degli armadi di quest’ultimo spettacolo a muovere le streghe c’ero io, nell’altro Raffaele Di Florio.
Quanto a Kantor, beh, che dire: finita l’Accademia dovevo fare un anno di specializzazione e chiesi di andare a farlo con lui. Ma ahimé, quello fu l’anno della sua morte. Mi venne proposto di seguire Bob Wilson ma io non mi ci ritrovavo, preferii rinunciare e andai a lavorare per un anno all’Ospedale Psichiatrico Santa Maria della Pietà, proprio insieme col mio inseparabile compagno d’avventura Tiziano Fario, lo scenografo di Carmelo grazie al quale avevo potuto seguirlo. E devo dirti che non mi sono mai pentito di quella scelta. In fondo, l’umanità che incontravo in quei padiglioni, allora ancora con finestre senza maniglie, mi pareva del tutto apparentata ai vecchi bambini che tu descrivi così bene. E poi c’era il Crt di Milano, dove ho debuttato con “La tempesta”, proprio al Salone Dini dove Kantor aveva lavorato. Tutto lì, in quegli anni, parlava di lui.
Qualche anno fa sono andato in “pellegrinaggio” al suo museo in Polonia insieme con mia moglie. Un’anziana signora ci ha condotto in quello che era poco più di uno scantinato, nessun visitatore a parte noi e pochissimi “resti” del suo lavoro di pittore e regista. Mi pareva che fosse diventato lui stesso un tenerissimo, fragilissimo oggetto di “rango inferiore”, per questo forse scampato per sempre al riordinare automatico della Signora Delle Pulizie, che, non vedendolo, ce lo ha lasciato in quel luogo della memoria da cui oggi tu lo evochi».

Carmelo Bene

Carmelo Bene

Dunque, gli articoli che ho pubblicato sul «Corriere del Mezzogiorno» sembrano funzionare come il proverbiale sasso gettato nello stagno: dal punto in cui cadono, quei miei sassi, si allargano cerchi concentrici via via sempre più larghi, che finiscono a toccare non solo le vicende professionali ma la vita stessa dei lettori. Perciò ho potuto rispondere a Davide Iodice che costituiscono una circostanza su cui riflettere questi nostri ricordi che si rincorrono, s’incontrano e – mentre non possono farlo i corpi – si abbracciano. Ma ora, proprio perché siamo obbligati a ricorrervi così spesso, è arrivato il momento di chiedersi che cosa sia il ricordo al di là della situazione contingente.
I ricordi, come per l’appunto sottolinea Kantor, sono una cosa molto importante. Io cito spesso la frase di una novella di Pirandello, «La carriola», che dice: «Chi vive, quando vive, non si vede (…). Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina, come una cosa morta la trascina. Perché ogni forma è una morte». Quindi, non ci accorgiamo, mentre li viviamo, dei momenti, anche preziosissimi, che viviamo. Ma quando sono passati, la «forma» in cui li imprigiona il ricordo non è più una morte, bensì una vita più alta e completa.
Ricordandoli, è come se quei momenti li mettessimo sotto la lente di un microscopio: al contrario di quanto accadeva mentre li vivevamo, adesso possiamo vederne – con esattezza e, insieme, con freddezza, con assoluta imparzialità – ogni dettaglio; e da quell’esame possiamo sinanche ricavare una presa di coscienza circa le nostre colpe e i nostri errori del passato, tramutando colpe ed errori in una lezione per il futuro.
Questa, comunque, è l’opportunità che ci offre, oggi, la segregazione forzata in casa: abbiamo il tempo per ripensare e valutare il nostro passato. E al riguardo, potrei riassumere tutto il discorso fatto sinora riandando per l’ennesima volta a Ibsen e alla decisiva osservazione di Szondi a proposito dei suoi personaggi: in un presente vuoto di azioni, siedono «a giudici del loro passato ricordato». Forse, però, è opportuno riassumere il tutto con un sorriso, con la poesia di Lorenzo Gargiulo che aprì la mia performance «Ma dove vanno i marinai».

Tadeusz Kantor

Tadeusz Kantor

Lorenzo Gargiulo era il padre di Antonio, il pittore di Castellammare del quale ho parlato nell’articolo dedicato a Michalis Lilis. Era comunista, e perciò, durante il regime fascista, venne licenziato dal cantiere navale. Per campare si mise a fare il pescatore. Sapeva a memoria molti versi della Divina Commedia, e questa è la sua poesia, sospesa, come il mio articolo, fra passato, presente e futuro:
«So’ viecchio, sto’ ‘a diece anne ‘npenzione / e ‘a vita ‘a passo sempe alleramente. / ‘E vizie nun me llevo, e faccio buono: / si no comme campasse inutilmente. / Diceno ‘e figlie mieie: “Statte accorto, / nun vevere ‘o ccafè e nun fumma’. / Quanno t’arrienne, quanno vene ‘a morte?”. / Ma pe’ sape’, quant’anne aggio ‘a campa’? / Dicette aiere figliemo ‘o pittore: / “T’aviss’arretira’ cchiù ampresso ‘a sera. / È vierno e vaie vestuto ‘e primmavera, / avisse ‘a sta’ int’ ‘o lietto già ‘a tre ore”. / Ma chistu figlio mio nun ‘o ccapisce, / se scorda c’aggio fatto ‘o piscatore, / e ca chi dorme nun ne piglia pisce! / So’ comme ‘o puorco, aggio ‘a durmi’ quatt’ore. / E ll’autriere è muorto un caro amico / ca nun teneva ‘o vizio d’ ‘o ffumma’. / Io lle dicette: addio, pere ‘e fico, / ‘o duimila t’aggio ‘a veni’ a truva’. / Pe’ piacere, faciteme appiccia’!».

                                                                                                                                          Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 15/4/2020)

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4 risposte a Celebrazione del ricordo

  1. Davide Iodice scrive:

    Enrico caro,
    grazie per il pensiero, in tutti i sensi.
    Quando si potrà tornare di nuovo in teatro, sarebbe bello continuare questi “dialoghi della quarantena” tra te e tanti teatranti, artisti, studiosi diversi. Allora potremo chiamarli “dialoghi della cura” o “della guarigione”.
    Davide Iodice

  2. Raffaele Di Florio scrive:

    Da qualche lustro mi occupo di teatro a tutto tondo: progettazione, formazione, ideazione e direzione. Quando sono invitato a condurre seminari di formazione per attori, per avvicinare gli allievi allo “studio del personaggio” spingo molto sulla memoria emotiva, la quale è contemporaneamente uguale come sensazione e diversa per ognuno di noi come esperienza.
    Chiedo ai partecipanti di raccontare o rappresentare un ricordo nitido del proprio vissuto, i dettagli, le sensazioni, i sapori, il suono… Particolari che possono e devono essere riprodotti senza alterarne le emozioni. Un esercizio non facile che comporta un dispendio di energie e “mette a nudo” l’Io di chi l’esegue. Il racconto di quella “memoria emotiva”, fatta di date, orari, visioni, ha qualcosa di unico anche in chi la propone. Se, infatti, chiedo il ricordo del giorno prima o della settimana dopo del “racconto”, la stragrande maggioranza non ricorda nulla, se non pallidi echi che si confondono nel tempo e nello spazio.
    “Ecco!, dico. Siamo tutt’uno con la nostra memoria emotiva, come i personaggi usciti dalla penna dei poeti e dei drammaturghi. Essi, come il nostro ricordo, hanno emozione, corpo, voce che diventano “verità” nelle nostre interpretazioni. Possono esserci diversi “Amleto”, tanti quanti attori affrontano il testo scespiriano, ed ognuno può essere credibile e “vero” se riesce a far vivere ogni battuta come quando si racconta la propria “memoria emotiva”.
    Allargando questa mia pratica attoriale alla situazione attuale, il virus Covid-19 ha dato, suo malgrado, consapevolezza del presente, del qui ed ora, dell’attimo che non va trascurato. E quando questo accade succede qualcosa di straordinario: la Storia entra nella quotidianità e prende il posto della cronaca.
    Questi, infatti, sono e saranno giorni che potranno essere rivelati tra decenni con la “memoria emotiva”, come i ricordi che mi raccontava mio nonno sulla seconda guerra mondiale.
    La nostra “memoria emotiva” è così sollecitata perché siamo “obbligati” a vivere lo “straordinario” come l’attore quando affronta il personaggio: il qui ed ora, dove mi trovo, la consapevolezza dell’atto che si sta compiendo… tutti ingredienti che costituiscono la pratica attoriale.
    Il mio settore (l’immateriale) è stato “chiuso” per primo e, probabilmente, sarà l’ultimo compartimento a ripartire una volta raggiunta la “normalità”.
    Cosa mi manca? Come a tutti, tante cose. Non manca la creatività, perché in questo periodo, oltre a dedicarmi completamente a mio figlio di 9 anni, continuo ad elaborare spazi scenici per lavori teatrali che per ora sono solo nella mia testa; ma scarseggia soprattutto, per il mio mestiere di artigiano dell’effimero, la “relazione vitale” che “teatro non è, ma lo alimenta”, come sosteneva un poeta della scena contemporanea, Antonio Neiwiller.
    Raffaele Di Florio

  3. Enrico Fiore scrive:

    Sempre grazie a te, caro Davide, per l’attenzione e la stima che continui a riservarmi.
    Hai ragione, peraltro, a parlare di “cura” e di “guarigione”. Ma non si tratta solo di quelle relative al coronavirus: di “cura” e di “guarigione” abbiamo bisogno in ogni fase della nostra vita, perché in ogni fase della vita siamo esposti al “contagio”. Al contagio da parte del mondo. È questione unicamente di come lo affrontiamo e di come lo trasformiamo in una risorsa, ovvero in una spinta verso il nuovo.
    Enrico Fiore

  4. Enrico Fiore scrive:

    Grazie per questo intervento, caro Raffaele. Credo anch’io che al teatro occorra, sulla traccia della lezione di Neiwiller, riscoprire la “relazione vitale” che “teatro non è, ma lo alimenta”. Però vale, quella lezione, non solo per il teatro: come diceva Peter Brook, bisogna sempre mettere una distanza fra noi e ciò che facciamo, perché unicamente così possiamo scoprire l’esistenza e la ricchezza dell’altro da noi e di queste nutrire il noi.
    Enrico Fiore

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