Il Kuce in bombetta tra il furore e le furie

Massimo Verdastro in un momento di «Eros e Priapo», in scena alla Galleria Toledo

Massimo Verdastro in un momento di «Eros e Priapo», in scena alla Galleria Toledo

NAPOLI – Come sappiamo, Gadda scrisse per il teatro un solo testo, l’atto unico «Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo». Ma si dà il caso che assai più spesso di quello siano arrivati alla ribalta altri testi dell’Ingegnere non destinati al palcoscenico, e più d’una volta nella forma di adattamenti apprezzabili tradotti in spettacoli di rilievo: a partire, s’intende, dai capolavori «Quer pasticciaccio brutto de via Merulana» e «La cognizione del dolore».
Si ricordano per quanto riguarda il primo l’adattamento portato in scena dal Teatro di Roma per la regia di Luca Ronconi e per ciò che concerne il secondo quello portato in scena dal Teatro Out Off per la regia di Lorenzo Loris, senza contare che passi de «La cognizione del dolore» sono entrati anche in vari spettacoli di Renato Carpentieri. Il primato fra le sortite in palcoscenico dei testi non teatrali di Gadda spetta però a «Eros e Priapo».
Tanto per fare qualche esempio, nella stagione 1979-’80 ne vedemmo al Sancarluccio un adattamento affidato alla regia di Lorenzo Salveti e all’interpretazione di Patrizia De Clara; nel 2012 andò a costituire, insieme con «Giornale di guerra e di prigionia», il copione dello spettacolo «L’ingegner Gadda va alla guerra», presentato alla Galleria Toledo per la regia di Giuseppe Bertolucci e l’interpretazione di Fabrizio Gifuni; l’anno scorso, nell’ambito del Contemporanea Festival promosso dal Teatro Metastasio, Licia Lanera lo mise a confronto, nello spettacolo «Lingua erotica», con il discorso pronunciato da Salvini al senato in occasione del voto di fiducia sul secondo governo Conte; e adesso è tornato alla Galleria Toledo, in «prima» nazionale, nell’adattamento firmato da Massimo Verdastro e Luca Scarlini per la regia e l’interpretazione del primo.
Parliamo, d’altronde, di un testo da tenere in grande considerazione: poiché – essendo, insieme, un «libello» (come Gadda stesso lo definì, nel senso di «minimo libro»), un anti-romanzo, una sorta di saggio storico e un vero e proprio pamphlet su e contro il fascismo – rappresenta, proprio in virtù di questa sua multiformità, una delle opere più emblematiche e decisive della produzione dell’Ingegnere lombardo, in quanto spinge fino al calor bianco l’incomparabile coacervo lessicale e sintattico che fa di lui uno degli indiscussi maestri della prosa del Novecento.
In breve, «Eros e Priapo» invera perfettamente il giudizio che Gianfranco Contini diede di Gadda, assegnandolo alla razza dei supremi «macaronici» quali Teofilo Folengo, il suo coetaneo francese Rabelais e, nei tempi moderni, James Joyce. E a dire del problema rilevantissimo che affronta – lo scontro fra il Logos, la ragione, e la cieca istintualità narcisistica, ovvero, per l’appunto, la trasformazione di Eros in Priapo – basterebbe il tema della «moltitudine» come femmina (anzi, più spesso, «femina» con una «m», alla latina, per degradarne ulteriormente, sotto specie di contrasto linguistico, lo «status» psico-sociologico) sempre pronta all’«accoppiamento» con il politicante da strapazzo di turno: nella fattispecie, invocato col grido parossistico «Kù-cè, Kù-cè», il Bombetta mascelluto, «Primo Maresciallo (Maresciallo del cacchio), lui il primo Racimolatore e Fabulatore ed Ejettatore delle scemenze e delle enfatiche cazziate».

Massimo Verdastro in un altro momento dello spettacolo, da lui stesso diretto

Massimo Verdastro in un altro momento dello spettacolo, da lui stesso diretto

Ora, il senso dell’operazione compiuta da Verdastro e Scarlini – voglio dire del loro rileggere oggi «Eros e Priapo» – sta nel cambio del sottotitolo. Quello di Gadda suonava «Da furore a cenere», quello di Verdastro e Scarlini suona «Il libro delle furie»: alla nuda constatazione del percorso storico che condusse dall’ascesa alla caduta del fascismo si aggiunge, adesso, il rimando alle Erinni, e cioè alla vendetta che s’incarna nell’irrinunciabile condanna senza appello del fascismo medesimo. Poiché Verdastro e Scarlini sanno benissimo quel che tutti noi sappiamo, che il terreno di coltura sul quale crebbe il «batterio» Mussolini continua a esistere.
Pensiamo subito a certi discorsi di ben noti politici di oggi quando risentiamo le fiammeggianti parole di Gadda circa la «frode camuffata da papessa onoranda, inorpellata dei nomi della patria, della giustizia, del dovere, del sacrificio». E tanto sottolinea a dovere la regia di Verdastro: perché – fra un elemento straniante e l’altro, poniamo fra la pantomima iniziale a cui il Verdastro interprete dà luogo con un librone fra le mani («Italiani! io vi esorto alle istorie!») e l’uscita di scena ballonzolante a cui ancora il Verdastro interprete s’abbandona canticchiando («Solo me ne vò per la città») – quella regia infila pause improvvise d’immobilità e silenzio, che costituiscono evidenti soprassalti della coscienza rispetto alla grigia e pericolosa temperie che stiamo attraversando.
Appunto al Verdastro interprete, poi, non so fare elogio migliore del constatare che traduce come meglio non si sarebbe potuto l’analisi gaddiana relativa a «que’ procedimenti oscuri, o alquanto aggrovigliati e intorti, dell’essere, che pertengono alla zona della carne ov’ella si dà vestita in penziero».
Infine, mi sia consentita un’annotazione personale. Massimo Verdastro mi è caro, e ben al di là della stima che nutro per lui in quanto attore. Già l’ho ringraziato, sul «Corriere del Mezzogiorno», perché a Parigi fu il protagonista, per la regia di Laura Angiulli, del mio atto unico, «Le ombre lunghe», in cui m’identificavo con Annibale Ruccello. E ora lo ringrazio perché il suo spettacolo mi ha riportato fra le mani la copia di «Eros e Priapo» che mi regalò, cinquantatré anni fa, il caposervizio che officiò il mio ingresso nel giornalismo. Si sono ingiallite, le pagine di quel libro che, credo, mi fu regalato come invito a non smarrire mai, nell’esercizio della professione, l’indignazione morale e civile di fronte al sopruso e alla menzogna. Ma spero che non si sia ingiallito, con esse, il mio impegno a rispettare l’invito.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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