La lingua «cupa» di Mimmo Borrelli

Mimmo Borrelli in un momento de «La cupa», in scena al San Ferdinando (le foto che illustrano questo articolo sono di Marco Ghidelli)

Mimmo Borrelli in un momento de «La cupa», in scena al San Ferdinando
(le foto che illustrano questo articolo sono di Marco Ghidelli)

NAPOLI – Riporto il commento pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Dunque, è tornato al San Ferdinando, dopo avervi debuttato nell’aprile del 2018, «La cupa» di Mimmo Borrelli, uno degli spettacoli di maggior rilievo degli ultimi anni. E a me, di rimbalzo, son tornate in mente le circostanze in cui venni a sapere dell’esistenza di un Mimmo Borrelli. Le rievoco ancora una volta, perché costituiscono la premessa del tema che svolgerò in questo articolo: la lingua adoperata dal drammaturgo di Bacoli.
Correva il 2005, era in corso la Biennale di Venezia. E una certa sera, appena sbuco in Campo de la Tana, davanti all’ingresso del Teatro Piccolo Arsenale, mi si fa incontro Franco Quadri e sbotta: «Non mi era mai successo prima. Al Premio Riccione mi trovo in mezzo a una guerra». E alla mia replica: «Scusa, di che guerra parli? E perché mi guardi come se l’avessi scatenata io?», spiega: «Tu no, ma un tuo conterraneo. Si chiama Mimmo Borrelli. Non lo conosci?». Dico che non so chi sia, e lui: «Ha mandato al Premio un suo testo, “Nzularchia”, su cui la giuria s’è letteralmente spaccata: una metà questo Borrelli vorrebbe fucilarlo subito, senza processo, e l’altra metà vorrebbe metterlo su un altare. E pensa tu: scrive in maniera così ostica che ha dovuto accompagnare “Nzularchia” con un apparato di note esplicative che è il doppio del testo».
Mi feci dare il numero di telefono e, tornato a Napoli, subito chiamai Borrelli, al quale, poi, Franco Quadri, che autorevolmente guidava lo schieramento dei «santificatori», il Riccione, il più prestigioso premio italiano per autori teatrali, l’aveva fatto avere. Se non erro, quella fu la prima intervista fatta all’allora ventiseienne drammaturgo, che abitava a Torregaveta, dopo cotanta vittoria. Ed ecco la cosa più importante che mi disse Borrelli: «Mi considero un erede di Viviani».
Infatti, ha un duplice approdo il barocco incandescente, violento e misterico che caratterizza la scrittura di Mimmo Borrelli in rapporto a Napoli: se da un lato invera la teoria sartriana del linguaggio come «corpo verbale», dall’altro adotta lo stesso legame viscerale con la realtà che fu, per l’appunto, di Raffaele Viviani. In breve, la lingua di Borrelli, come quella di Viviani, non è una lingua semplicemente descrittiva e narrativa, quale risulta, per intenderci, la lingua di Eduardo De Filippo, ma è una lingua costitutiva.

Un altro momento dello spettacolo, ripreso a distanza di due anni dal debutto altra scena de «La cupa», sempre ritratta da Marco Ghidelli

Un altro momento dello spettacolo, ripreso a distanza di due anni dal debutto nello stesso San Ferdinando

Di tanto ci offre un esempio probante già il titolo dello spettacolo in scena al San Ferdinando. Nella lingua italiana non esiste il sostantivo «cupa», esiste solo l’aggettivo «cupo», che indica la scarsità di luce e, quindi, consiste di una qualità, ossia di qualcosa di astratto. Ma nell’area centro-meridionale il sostantivo «cupa» esiste, e indica un viottolo incassato: in particolare, nel caso del testo di Borrelli, la stretta e oscura stradina di campagna, derivante da dilavamenti delle acque, che porta alla cava di tufo. Si attua, così, un assai significativo slittamento di senso dall’astrattezza dell’aggettivo, che per consistere ha sempre bisogno di un punto di riferimento, alla concretezza del sostantivo, che al contrario consiste di per sé. Ed è questo, proprio questo, il processo che mette in moto la lingua costitutiva.
Peraltro, compare ne «La cupa» una croce dai cui bracci pendono brandelli di rete da pesca e che, perciò, rimanda alla solidarietà fra gli uomini che esisteva quando i pescatori liberi dal proprio lavoro andavano ad aiutare i cavatori a trasportare le pietre fino al mare. E irrompe qui proprio il Viviani di «Pescatori». I primi due versi del celebre canto che ricorre in quella tragedia suonano: «’E vuzze d’ ‘o ssicco, cu ll’uommene attuorno, / cu “Oh! tira!” e cu “Oh! venga!” se scenneno a mmare». I gozzi vengono trascinati in mare «d’ ‘o ssicco», cioè dalla terraferma, che, rispetto all’acqua, è per l’appunto «secca». Ma Viviani lo dice con un’immagine verbale assolutamente pregnante, che trasforma l’aggettivo («sicco») in un sostantivo («’o ssicco») e quest’ultimo, di conseguenza, in vero e proprio personaggio.
Siamo, di nuovo, a un esempio probante della lingua costitutiva. E se c’inoltriamo, al riguardo, nel campo della glottologia, lo slittamento di senso diventa addirittura fantasmagorico. Spicca, fra i dialetti della zona flegrea che si fondono a determinare l’incomparabile «pidgin» che connota la scrittura di Borrelli (quelli di Cappella, di Bacoli e di Monte di Procida), la parlata montese, che si distingue per l’uso frequente del monosillabo «re»: un monosillabo che riunisce in sé tutti gli articoli e le preposizioni.
Ebbene, «re» è la radice indoeuropea che dà luogo alla parola latina «res». La quale, certo, significa «cosa». Ma Boccaccio, poniamo, con il termine «re» indica anche il patrimonio, l’insieme di tutti i beni familiari o pubblici. Torniamo, così, al «re» della parlata montese. E torniamo alla «cupa» di Borrelli: perché «cupa», in latino, è la botte, ovvero un contenitore; e la «cupa» di Borrelli è un sinonimo dell’utero, in quanto contiene la metafora centrale e decisiva dello spettacolo: quella del necessario viaggio, stanti le continue incursioni del Male, verso il buio prenatale, alla ricerca dell’innocenza perduta. Lo dice il coro dei personaggi. E proprio per farne risaltare l’importanza, allo scopo isolandolo dal contesto col rivestirlo di una forma «ufficiale», stavolta lo dice in italiano, e persino in un italiano aulico: «Spaccar pietre è un’agonia. / Tienimi dentro, madre mia! / Nella pancia il mio tornare, / senza colpe da espiare».

Ancora una scena de «La cupa», che vede Borrelli anche nei ruoli di regista e interprete

Ancora una scena de «La cupa», che vede Borrelli anche nei ruoli di regista e interprete

Ma tutto questo discorso si proietta, e non poteva essere diversamente, anche sulle prossime attività di Borrelli. Ha annunciato che Roberto Andò, il nuovo direttore, gli ha proposto di lavorare con lo Stabile di Napoli fin dalla stagione 2020-’21. Ed ha anticipato che sta scrivendo un testo su Otello. Ovviamente. Perché – come ho già osservato in altre occasioni – il vero tema dell’«Otello» non è la gelosia connessa con il problema razziale, ma giusto il linguaggio. E lo dimostra proprio il personaggio, Jago, che costituisce il motore dell’azione.
Già Giraldi Cinthio – l’autore della novella, la settima della terza decade dei suoi «Hecatommithi», che fu la fonte del Bardo – aveva posto l’accento sulle «alte e superbe parole» con cui Jago maschera il proprio «vilissimo animo». E non a caso, poi, dalla stessa Desdemona l’Alfiere viene definito «parolaio» (atto II, scena I). In breve, Jago, allo scopo di catturare gl’interlocutori oggetto delle sue trame e di essere a tale scopo più convincente, spinge la capacità di padroneggiare il linguaggio sino al punto d’identificare il proprio con quello delle vittime prescelte. La prima delle quali, Otello, dovrà quindi constatare: «Perdio! Costui mi fa l’eco; come se nel suo pensiero nascondesse un mostro troppo orrendo per farlo vedere» (atto III, scena III). Ed è qui – ben al di là della trama, abbondantemente melodrammatica – la moderna e geniale consistenza della tragedia di cui parliamo: Jago, per trasferire il «mostro» che ha creato nella mente e nell’animo del Moro, non trova di meglio che adottare, appunto, le parole dello stesso Otello. E del resto, non è forse con le parole che, raccontando la propria vita, il Moro conquista il cuore di Desdemona?
Insomma, mi sembra davvero che il progetto su Otello a cui si sta dedicando Borrelli possa costituire il primo passo sulla strada che – come scrissi su questo giornale nel luglio dell’anno scorso, salutando con favore l’arrivo di Andò – coincide con il passaggio da un’idea di teatro vecchia (quella del teatro concepito essenzialmente come rappresentazione e intrattenimento) a un’idea di teatro in linea con i tempi (quella del teatro concepito come mezzo per stimolare l’esercizio di un pensiero critico nei confronti del mondo, della vita e della società).

                                                                                                                                           Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 3/3/2020)

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2 risposte a La lingua «cupa» di Mimmo Borrelli

  1. Raffaele Mastroianni scrive:

    Carissimo,
    anche il Teatro si è ammalato, tocca curarlo.
    Un paese senza Teatro è più buio.
    C’è il calcio a porte chiuse e in diretta televisiva, il Teatro deve fare lo stesso.
    Lo Stabile di Napoli comunica la sospensione, ormai non serve più. Le telecamere le hanno usate solo per i primi piani delle lacrime.
    Il Biondo manda in diretta gratuita il buon lavoro su Frida.
    Chiediamo alla Rai dirette dai teatri, recuperando fondi per chi ci lavora.
    Chiediamo alle compagnie di mettere in rete in orari di spettacolo i loro lavori.
    Il Teatro è un modo di guardare la vita, ci serve.
    Usiamo la rete.
    Se condividi fai qualcosa, tu puoi.
    Ciao.
    Raffaele Mastroianni

  2. Enrico Fiore scrive:

    Caro Raffaele,
    sono perfettamente d’accordo. Tanto che ho preso spunto dal tuo messaggio per scrivere sul “Corriere del Mezzogiorno” una pagina intera circa la chiusura delle sale teatrali imposta dal Coronavirus. L’ho pubblicata oggi, e la riporterò su questo sito domani, ovviamente per non interferire con le vendite del giornale.
    Enrico Fiore

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