Tutti gli «assassini» di un padre: da Chirac a Macron

Francesco Alberici in un momento di «Chi ha ucciso mio padre» (le foto che illustrano questo articolo sono di Luca Del Pia)

Francesco Alberici in un momento di «Chi ha ucciso mio padre»
(le foto che illustrano questo articolo sono di Luca Del Pia)

MODENA – Il pregio di «Chi ha ucciso mio padre» – il pamphlet di Édouard Louis da cui è stato tratto l’omonimo spettacolo presentato in «prima» assoluta, al Teatro delle Passioni, nell’ambito della quindicesima edizione del Vie Festival promosso da Emilia Romagna Teatro (regia di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, traduzione di Annalisa Romani, adattamento di Francesco Alberici e degli stessi Deflorian e Tagliarini) – sta nel fatto che procede sulla base di un programmatico ribaltamento di certe proverbiali prese di posizione ideologiche: a partire da quella che durante il Sessantotto riguardava la necessità, per i figli, di uccidere i padri.
Qui, al contrario, c’imbattiamo in un figlio che, al posto del padre (col quale, pure, avrebbe un motivo di conflittualità validissimo, visto che lui non ha mai accettato la sua omosessualità), vorrebbe uccidere chi, per quanto indirettamente, il padre gliel’ha ucciso. E chi siano questi assassini lo anticipa, in apertura del testo, una citazione da un libro dell’intellettuale americana Ruth Gilmore: «La politica è ciò che divide alcune popolazioni a cui è riservata una vita fatta di sostegno, incoraggiamento, protezione da altre popolazioni che invece sono esposte alla morte, alla persecuzione, all’omicidio».
In proposito, davvero il ventottenne Édouard Louis – all’anagrafe Eddy Bellegueule, il cui primo romanzo, appunto «Farla finita con Eddy Bellegueule», nel 2014 esplose in Francia come un autentico caso – non le manda a dire. Alla fine, rivolto al padre, che non vediamo e non sentiamo mai, il figlio fa una denuncia che più precisa non potrebb’essere: «Hollande, Valls, El Khomri, Hirsch, Sarkozy, Macron, Bertrand, Chirac. La storia della tua sofferenza ha nomi e cognomi. La storia della tua vita è la storia di queste persone che si sono date il cambio per abbatterti. La storia del tuo corpo è la storia di questi nomi che si sono dati il cambio per distruggerlo. La storia del tuo corpo accusa la storia politica».
Altrettanto decisa e precisa, del resto, è la descrizione del modo in cui i politici suddetti hanno portato a termine l’«assassinio» in questione. Nel marzo 2006, per esempio, il governo di Chirac e il suo ministro della salute Bertrand decisero che lo Stato non avrebbe più rimborsato decine di medicinali, compresi quelli contro i disturbi digestivi che servivano al padre. E il figlio conclude: «Jacques Chirac e Xavier Bertrand ti hanno distrutto l’intestino». Poi, per fare un altro esempio, nel 2009 il governo di Sarkozy e il suo responsabile dell’assistenza pubblica Hirsch decisero di abolire il reddito minimo versato dallo Stato alle persone senza lavoro. E il padre, che aveva subìto in fabbrica un incidente alla schiena, fu costretto ad accettare un lavoro da spazzino che lo obbligava a stare piegato tutto il giorno. Sicché il figlio conclude: «Nicolas Sarkozy e Martin Hirsch ti hanno spaccato la schiena».
Occorre, però, soffermarsi in particolare sulla frase: «La storia del tuo corpo accusa la storia politica». Perché è vero che Louis a un certo punto cita Sartre, ma accade con l’autore de «L’essere e il nulla» quanto accadeva con il Sessantotto: la sua nota formula del linguaggio come «corpo verbale» qui viene ribaltata dalla parafrasi del corpo come linguaggio «processuale».
Ecco, allora, che proprio le citazioni configurano un altro dei pregi del testo. A parte Sartre, Louis cita Handke, Eribon, Céline Dion e persino il Leonardo Di Caprio e la Kate Winslet di «Titanic». E mi sembra che tanta varietà di rimandi sia da mettere in relazione con la battuta che pronuncia il figlio dopo aver ricordato che il padre beveva: «Il mondo imponeva alle persone […] una vita tale che non restava altro che provare a dimenticarla – con l’alcool. O dimenticavi o morivi, oppure dimenticavi e morivi. Dimenticare o morire, oppure dimenticare e morire d’accanimento a dimenticare».

Francesco Alberici in un altro momento dello spettacolo, diretto da Daria Deflorian e Antonio Tagliarini

Francesco Alberici in un altro momento dello spettacolo, diretto da Daria Deflorian e Antonio Tagliarini

Ebbene, in che cosa si traduce l’«accanimento a dimenticare» se non nell’annegare il ricordo nella citazione ad oltranza, ovvero nel citare e re-citare? Proprio un bel guizzo d’intelligenza, non c’è che dire. E per tornare al tema del corpo come linguaggio, non meno intelligente appare la spiegazione del perché il padre non studiò. Dice il figlio: «Abbandonare la scuola il prima possibile era una questione di mascolinità per te […]. Per te costruire un corpo maschile significava resistere al sistema scolastico, non sottostare agli ordini, all’Ordine, all’autorità che la scuola incarnava. […] La mascolinità – “non comportarsi come una femmina, non fare il frocio” – significava abbandonare gli studi il prima possibile per provare la propria forza agli altri, per mostrare l’insubordinazione e quindi, è quello che ne deduco, costruire la propria mascolinità significava privarsi di un’altra vita, di un altro futuro, di un altro destino sociale che gli studi avrebbero potuto offrire. La mascolinità ti ha condannato alla povertà, all’assenza di soldi. Odio dell’omosessualità = povertà».
Infine, l’ultimo e più significativo ribaltamento. L’evidenza e l’inammissibilità dell’«assassinio» compiuto dai vari politici di cui sopra sono tali che spingono persino quel padre maschilista e omofobo a pronunciare una sentenza di condanna. Chiede al figlio, venuto a trovarlo, se fa ancora politica. E quando lui gli risponde: «Sì, sempre di più», commenta: «Fai bene. Fai bene, ci vorrebbe proprio una bella rivoluzione».
In merito alla messinscena, poi, constato che la Deflorian e Tagliarini, per la prima volta alle prese con un testo non scritto da loro, danno luogo a uno spettacolo scarno, quasi minimalistico e addirittura sommesso, ma, nello stesso tempo, affilato come la lama di un rasoio. E una cosa soprattutto colpisce: il ruolo estremamente significante affidato a dei sacchetti dell’immondizia.
L’interprete li prende ripetutamente a calci e in seguito affonda nel loro mucchio; e ancora, li sventra con un coltellino a serramanico, facendone uscire giocattoli, abiti e oggetti da lavoro e cianfrusaglie varie. Quei sacchetti dell’immondizia, insomma, diventano un simbolo, tanto dell’esistenza a perdere del padre quanto dell’amore e sinanche della tenerezza che fra lui e il figlio comunque ci sono stati. E sul nero dei sacchetti a un tratto si accende e serpeggia un riverbero rosso, e i sacchetti, ammonticchiati gli uni sugli altri, si trasformano in una sorta di barricata davanti a una porta: quella che si apre sul fondo dello spazio dell’azione e conduce in un secondo spazio del Teatro delle Passioni, chiuso dalla parte della strada da una vetrata dietro cui si vedono passare le automobili. E una luce rossastra e del fumo prendono a diffondersi a poco a poco in questo secondo spazio.
Bellissimo e toccante. Si poteva alludere con maggiore delicatezza, maggior pudore e, insieme, maggiore forza alla separatezza degli emarginati dai dominanti e, per l’appunto, al sogno della rivoluzione che, in quella separatezza, a poco a poco viene destato e alimentato dalla vita che scorre nell’esterno negato dal potere economico e politico agli sfruttati?
Infine, la prova maiuscola fornita da Francesco Alberici: fredda come un referto anatomico e bruciante come una fiamma. Costituisce la sigla migliore per uno spettacolo che, una volta terminato, non ti lascia. Perché ti consegna dei problemi che non puoi fare a meno di affrontare.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

P.S. Terminano qui le mie cronache dal Vie Festival. Avevo in programma di vedere ancora: a Bologna Fiera «Het land Nod» di FC Bergman, al Bonci di Cesena «The Metamorphosis» di Matthew Lenton e allo Storchi di Modena «Bajazet» di Frank Castorf. Roba di prim’ordine, com’è evidente. Ma… poscia, più che il teatro poté il coronavirus. Quegli spettacoli sono stati tutti annullati.

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