Ha una radice d’amore l’odio di Salieri per Mozart

Da sinistra, Geppy e Lorenzo Gleijeses, protagonisti dell'allestimento di «Amadeus» in scena al Diana

Da sinistra, Geppy e Lorenzo Gleijeses, protagonisti dell’allestimento di «Amadeus» in scena al Diana

NAPOLI – Si sentiva il celeberrimo «andante» del Concerto per pianoforte e orchestra K 467 di Mozart. E, appena s’apriva il sipario, scorgevamo Salieri inginocchiato davanti a un pianoforte a coda privo di una gamba. Ma non stava in adorazione della musica, no: sul pianoforte, al posto del leggìo, c’era un pallottoliere con cui Salieri faceva dei calcoli ossessivi, pigiando contemporaneamente sui tasti.
Attenzione, però. Da quei tasti non usciva alcun suono. E la gamba mancante del pianoforte ce l’aveva Mozart: il «fantasma» (o lo spirito) del quale, dopo che Salieri l’aveva, secondo la leggenda, avvelenato, se la portava via, lasciando l’assassino a sostenere sulle spalle il peso dello strumento zoppo mentre si risentiva (e inutilmente Salieri insisteva a urlare: «Silenzio!») l’«andante» iniziale.
Era la scena d’avvio dell’allestimento di «Mozart e Salieri» che Eimuntas Nekrosius presentò nel dicembre del 1994 a Taormina, quando gli venne assegnato il Premio Europa Nuove Realtà Teatrali. Ed ecco, insomma, come il «Bob Wilson del Baltico», senza dire una sola parola, diceva incomparabilmente la differenza fra Mozart e Salieri, fra l’angelo e il ragioniere della musica.
«Mozart e Salieri», lo sappiamo, è uno dei tre (gli altri due sono «Il convitato di pietra» e «Il festino durante la peste») poemetti drammatici – per suo conto lui li chiamò in vari modi, «scene drammatiche», «schizzi drammatici» e «saggi drammatici» – che Puskin scrisse nel 1830 a Boldino, dov’era costretto in quarantena dal colera: e affronta il sentimento dell’invidia, con gli annessi problemi della conciliabilità del genio con il delitto e della contrapposizione fra il creatore che improvvisa e l’artista che produce attraverso un lavoro metodico.
Mi son tornati in mente, «Mozart e Salieri» e la sua messinscena da parte di Nekrosius, mentre, al Diana, assistevo all’allestimento di «Amadeus», la fortunatissima commedia di Peter Shaffer (ricordiamo tutti l’omonimo film che ne trasse nel 1984 Milos Forman), presentato dalla Gitiesse e dal Teatro della Toscana. E non si tratta soltanto del richiamo esercitato dal fatto che la regia di questo spettacolo è firmata da un altro grande maestro dell’Est europeo, Andreij Konchalovskij.
Parto da Hildesheimer e Schenk, che sono due dei massimi studiosi e biografi di Mozart. Il primo si sofferma volentieri sul fatto che per Wolfgang «l’andar di corpo» era una «funzione che, come lui stesso ha dichiarato, non solo eccitava la sua fantasia, ma gli procurava anche una sorta di soddisfazione animale»; il secondo preferisce, invece, parlare di un carattere incline, nello stesso tempo, alla socievolezza e alla ritrosia, di un demoniaco dissidio tra l’austero cattolico e il libero pensatore illuminista, di ricchezza di fantasia, appunto, e di sentimenti, di ironia e di giocondità.
Insomma, tutto sta nello scopo con cui si utilizzano determinati elementi della realtà. E non v’è dubbio che Peter Shaffer abbia utilizzato e interpretato quegli elementi con lo scopo di costruire un testo commerciale, che, certo, non manca d’ingegnosità strutturale e di una sua accattivante furbizia, ma è scopertamente fondato sulle «rivelazioni» scandalistiche ad effetto e ha il taglio e il ritmo di un tipico «sceneggiato» televisivo.
Il risultato è il ritratto, davvero troppo arbitrario e semplicistico, di un Mozart sostanzialmente bloccato nel periodo sadico-anale e inesorabilmente affetto da una sfrenata coprolalia. E un discorso identico, del resto, può farsi circa l’altro tema affrontato da Shaffer, l’invidia e il conseguente odio feroce nutrito per Mozart da Antonio Salieri: qui si vorrebbe mettere in campo, per l’appunto, lo scontro fra il genio e la mediocrità, ma a conti fatti – dopo che ha riesumato la leggenda già raccolta da Puskin di un avvelenamento di Wolfgang da parte del potentissimo compositore di corte – l’autore non sa cavarsela che con un finale in cui lo stesso Salieri dichiara di aver effettivamente compiuto quel delitto perché, così, il suo nome resterà nei secoli legato al nome di Mozart e un po’ della gloria di quest’ultimo si rifletterà anche su di lui.

Da sinistra, Lorenzo Gleijeses, Roberta Lucca e Geppy Gleijeses

Da sinistra, Lorenzo Gleijeses, Roberta Lucca e Geppy Gleijeses

Ebbene, il merito di Konchalovskij è quello di aver neutralizzato il manicheismo e l’estremismo che gravano sul testo di Shaffer e, in buona misura, sul film di Forman. Qui non ci sono né il Salieri dipinto come un mostro di malvagità né il Mozart dipinto come un discolo sporcaccione. E sullo sfondo, dunque, si mette in luce la verità storica, anche e soprattutto sul piano strettamente musicale: a cominciare dal riconoscimento in Salieri di un compositore notevole.
Faccio al riguardo un paragone che mi sembra illuminante. Ad Antonio Salieri toccò la stessa sorte che poi sarebbe toccata a Joaquín Sorolla y Bastida. Sorolla y Bastida, spagnolo di Valencia, fu il più grande pittore manierista fra Otto e Novecento: vendeva a prezzi vertiginosi in ogni parte del mondo, e anni fa quella dei suoi dipinti risultò la mostra con il maggior numero di visitatori mai allestita al Prado. Ma ebbe la sfortuna di vivere e operare nell’epoca in cui viveva e operava un altro pittore spagnolo che si chiamava Pablo Picasso. Sicché, oggi, pochissimi sanno di Sorolla y Bastida e tutti sanno di Picasso.
Il merito maggiore di Konchalovskij, però, sta nella particolare modalità di esecuzione con cui fa venir fuori il ritratto dei due personaggi in questione. Nella commedia di Shaffer e nel film di Forman i loro caratteri apparivano veramente scolpiti con l’accetta, laddove qui scaturiscono, sul filo di una sapientissima strategia, da quelli che – parafrasando il titolo del capolavoro di Robbe-Grillet – definirei spostamenti progressivi della psicologia.
Così, Mozart passa dalla scurrilità all’attrazione per il bel mondo della corte viennese e alla coscienza dolorosa d’essere altro rispetto ad esso, mentre Salieri passa dall’ammirazione del musicista per il talento del giovane collega all’invidia per il concorrente più dotato di lui e all’odio per chi l’ha messo in secondo piano. Quello di Salieri per Mozart è, dunque, un odio che ha una radice d’amore. E infatti, l’ultimo degli spostamenti della psicologia di cui dico riguarda il fatto che Salieri devia quell’odio da Mozart verso Dio, che gli ha dato il dono della musica ma gli ha negato la capacità di farne uso al di là e al di sopra della routine professionale.
Insomma, come un provetto «giallista», Konchalovskij dissemina il percorso mentale proposto allo spettatore di tutta una serie d’indizi preziosi, che lo preparano a capire al meglio, in tutta la sua portata, il grido in cui proromperà Salieri: «Dio ingiusto, tu sei il nemico!». E il simbolo di un siffatto percorso è quel sipario interno che dall’inizio alla fine si srotola dall’alto verso il basso e viceversa, determinando una sorta di funzionali e oltremodo significanti dissolvenze incrociate.
Naturalmente, un impianto contenutistico e formale del genere richiedeva interpreti all’altezza. E li ha trovati in un Geppy Gleijeses (Salieri) e in un Lorenzo Gleijeses (Mozart) che nella circostanza forniscono due delle più convincenti prove attorali degli ultimi tempi. Parlo di acuto scavo nelle pieghe dei personaggi, di perfetta adesione espressiva alla loro consistenza, di accorta fusione della concettualità con il sentimento. E adeguati risultano anche i comprimari, fra i quali vanno citati almeno Roberta Lucca (Constanze Weber) e il veterano Giulio Farnese (l’imperatore Giuseppe II). In breve, uno spettacolo che, nell’ambito del teatro «ufficiale», costituisce uno degli ormai rarissimi esempi di come si possano mettere d’accordo la godibilità e l’impegno culturale.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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