Guardarsi vivere davanti a una maschera tribale africana

Elisabetta Pozzi in un momento di «Apologia», in scena al Mercadante (le foto che illustrano questo articolo sono di Luca Del Pia)

Elisabetta Pozzi in un momento di «Apologia», in scena al Mercadante
(le foto che illustrano questo articolo sono di Luca Del Pia)

NAPOLI – La cucina della casa di Kristin Miller, nella campagna inglese. Kristin è una nota storica dell’arte e scrittrice. E in occasione del suo compleanno e quando ha appena pubblicato la propria autobiografia, arrivano a farle visita il figlio Peter con la fidanzata Trudi, che le portano in dono una maschera tribale africana autentica. Sarà davanti a quella maschera, e sempre in cucina, che si svolgerà interamente la pièce.
Questa la situazione di partenza di «Apologia», la commedia di Alexi Kaye Campbell che Il Centro Teatrale Bresciano e lo Stabile di Catania presentano al Mercadante nella traduzione di Monica Capuani e per la regia di Andrea Chiodi. Campbell (all’anagrafe Alexi Komondouros, nato ad Atene, nel 1966, da padre greco e madre britannica) è uno dei più interessanti drammaturghi anglosassoni di oggi. E basterebbe a dimostrarlo ciò che Kristin – in apertura del testo, e dunque in posizione fortemente icastica – dice della maschera ricevuta in regalo: chiede a Trudi quali siano «Il suo significato, la sua storia, la sua funzione. La sua vita», per poi spiegare: «Quello che sto dicendo, credo, è che questi oggetti – questi oggetti strani e misteriosi – sono immersi nella loro storia e noi ne sappiamo pochissimo, quindi esiliarli in cambio di qualche centinaio di dollari mi sembra un po’… Non che io sia superstiziosa, perché non lo sono. Voglio solo dire che mi piacerebbe conoscere qualcosa in più del contesto in cui è stata creata. Perché il suo scopo principale decisamente non era decorativo. Quindi che stia qui, in questa casa, come oggetto decorativo mi sembra… come posso dire… irrispettoso, immagino. Sia per l’oggetto, sia per l’artista che lo ha creato».
In proposito, a me torna subito in mente quel che dice il protagonista della novella di Pirandello «La carriola»: «Chi vive, quando vive, non si vede (…). Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina, come una cosa morta la trascina. Perché ogni forma è una morte». Infatti, è proprio questo che fanno i personaggi riuniti nella cucina di Kristin Miller insieme con lei: a parte Peter e Trudi, l’altro suo figlio Simon con la fidanzata Claire e Hugh, un vecchio amico di Kristin. Si guardano vivere, disperatamente aggrappati – è il tema-chiave di Pirandello, su cui non mi stancherò mai d’insistere – al tentativo d’imprigionare la vita, ch’è un susseguirsi di momenti di disgregazione, per l’appunto in una forma, data per sempre e per sempre riconoscibile.
In breve, quei personaggi trascinano la vita fuori della vita, esattamente come hanno fatto Peter e Trudi acquistando da turisti quella maschera tribale africana e, ripeto, autentica. Ma mi affretto ad aggiungere che, accanto a Pirandello, ci sono altri due numi tutelari che presiedono al testo di Campbell: Ibsen e, ciò ch’era facile prevedere, Pinter.
Ibsen viene chiamato in causa espressamente, quando ci s’informa che Claire, attrice di soap opera, in precedenza ha recitato anche in «Casa di bambola». E per dimostrare in che misura c’entri con il plot di «Apologia» ricorro ancora una volta alla decisiva analisi di Szondi: «In Ibsen il problema è quello di rappresentare il passato, vissuto interiormente, in una forma letteraria che conosce l’interiorità solo nella sua oggettivazione, e il tempo solo nel suo momento di volta in volta presente; ed egli lo risolve inventando situazioni in cui gli uomini seggono a giudici del loro passato ricordato, e lo portano così alla luce aperta del presente».
Infatti, al centro di «Apologia» campeggia, giusto, il vero e proprio processo che Peter e Simon, in particolare il secondo, intentano a Kristin, accusandola di averli trascurati, dopo essersi separata dal loro padre, in favore del suo lavoro. Fino al punto di non averli neppure nominati nell’autobiografia (l’«apologia» di cui nel titolo) data alle stampe. E per proprio conto, quando Simon le dice: «[…] mi sarebbe piaciuto giocare un ruolo un po’ più centrale in quello che sono sicuro viene descritto nel retro di copertina come vita e opere di Kristin Miller», lei replica seccata: «È un’autobiografia sul mio lavoro. Non mi interessava mettere in piazza i miei panni sporchi».

Emiliano Masala ed Elisabetta Pozzi in un altro momento dello spettacolo, diretto da Andrea Chiodi

Emiliano Masala ed Elisabetta Pozzi in un altro momento dello spettacolo, diretto da Andrea Chiodi

Tanto sia sufficiente, insomma, a dar prova del veleno che circola implacabile nel cervello e nei discorsi di questi personaggi. Quando, per fare un altro esempio, Claire dice: «Mi piace guardare la gente che scarta i regali», Hugh commenta: «So quello che vuoi dire. Soprattutto il momento impagabile in cui sono costretti a nascondere la delusione dietro un ghigno impassibile». E quando lo stesso Hugh rievoca il passato militante di Kristin («[…] da ragazzina derelitta con lo striscione in mano a comunista sfegatata che brandisce falce e martello, da laureata al Courtauld con una pettinatura allarmante a sposa hippy con una pettinatura ancora più allarmante. Nella tua ricerca del bene comune ti sei dedicata a tante cause quante sono le malattie veneree che mi sono beccato io. Dai vicoli della Palestina alle battaglie del sindacato dei minatori, e dalla barricate di Parigi alla lotta per il disarmo nucleare delle donne di Greenham Common», Claire aggiunge sarcasmo a sarcasmo intervenendo con un impietoso: «Senza neanche l’ombra di una crema idratante». E, per concludere con gli esempi al riguardo, ancora Hugh, quando Kristin nomina la comune amica Melissa Jones, commenta: «Una poetessa femminista con il dono della finezza. Credo che la sua prima antologia si intitolasse “Il pene del diavolo”».
Claire, poi, s’incarica per giunta d’incarnare quello che è uno dei pregi fondamentali di «Apologia», lo spiazzamento programmatico. Giacché sarà proprio lei, fino ad allora presentata come l’ochetta della situazione, a fornire una più che attendibile spiegazione del carattere intransigente di Kristin: «C’è una parte di me che ti ammira. Il modo in cui non hai rinunciato alle cose in cui credevi. Ma il tuo idealismo si è trasformato in durezza, Kristin. Ha una scorza molto, molto dura. Tu hai una scorza molto dura. Un carapace. […] E per te credo che sia veramente il caso di restare fedele a tutto quello che sei. A tutto quello che sei stata. Le scelte che hai fatto, le strade che hai imboccato. Perché se cominci a metterle in discussione, se cominci a metterle in dubbio… be’, allora, sei veramente fregata, no?».
Però, altro spiazzamento, sarà proprio l’intransigente «per necessità» Kristin a pronunciare le parole più alte, toccanti e attuali. Rivolta a Peter e Claire, dice: «Voi non sapete niente di cosa significa vivere per qualcosa di leggermente più grande di voi stessi, perciò qualsiasi cosa dirò in mia difesa vi suonerà come se lo pronunciassi in una lingua straniera. […] Potrei restare seduta qui ventiquattro ore a cercare di spiegarvi cosa significa avere una coscienza politica, cosa significa combattere per qualcosa di diverso dal proprio personale benessere materiale e domestico, e voi non capireste».
Infine, a dire dell’influenza esercitata su «Apologia» da Pinter, basta por mente alla decisiva dichiarazione che lo stesso Pinter rilasciò nel corso dell’intervista con Kenneth Tynan trasmessa dalla Bbc il 28 ottobre del ’60: «Credo che invece di un’incapacità di comunicare ci sia una deliberata evasione dalla comunicazione. Il comunicare tra persone è di per se stesso così terrificante da indurre a un continuo divagare su altri argomenti invece di affrontare ciò che è alla base del loro rapporto». E qui mi limito a un solo ma eclatante esempio: la scena in cui, mentre Simon cerca di esporle i motivi del risentimento che prova verso di lei, Kristin risponde puntualmente con battute che si riferiscono alle cure che gli sta prestando per una ferita.
Certo, non tutto si tiene. «Apologia» accusa qualche ridondanza, qualche considerazione piuttosto scontata e/o datata e, soprattutto, l’affollarsi di troppi temi: il fallimento del Sessantotto, l’imborghesimento di coloro che vi parteciparono, il consumismo, la fede religiosa, l’imperialismo statunitense, l’omosessualità (nella persona di Hugh), la difficoltà nei rapporti umani e in specie, appunto, fra generazioni diverse e fra genitori e figli. Ma, nel complesso, siamo di fronte a un testo ben congegnato, che mescola con efficacia il divertimento (per il tramite del tipico humour britannico) e la riflessione (per il tramite di un risentito «amarcord» socio-politico).
Ma, rispetto a tutto questo, l’allestimento proposto al Mercadante si rivela, come dire?, ininfluente. La regia non va oltre la lettera di quel che ha scritto l’autore, trascurandone puntualmente ogni implicazione sul piano della metafora e, quindi, dei riferimenti alla nostra odierna condizione morale, economica, sociale, ideologica, politica e culturale. L’unica idea è il pannello che in due o tre occasioni cala dall’alto e ci mostra taluni dei personaggi dietro i vetri di una finestra o nel vano di una porta, separati dall’ambiente circostante e, così, prigionieri di una solitudine che richiama la lontananza dal mondo degli uomini e delle donne che compaiono nei quadri di Hopper.
Ecco, sembra piuttosto evidente che bisognava puntare proprio su una simile solitudine. Ma qui – mi si passi la battutaccia, comunque obbligata – mancavano i Chiodi per appendere quei quadri. E per quanto riguarda la prova degl’interpreti, non risalta che il mestiere di Elisabetta Pozzi (Kristin Miller), mentre, fra gli altri, mi sento di citare solo Emiliano Masala (Simon). Il resto appartiene a una dimensione pigramente e fastidiosamente scolastica.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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