Isa Danieli, la storia nel presente

Isa Danieli in un momento di «Raccontami (Una passeggiata devota)»

Isa Danieli in un momento di «Raccontami (Una passeggiata devota)»

NAPOLI – Riporto il commento pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Recentemente, a proposito del discutibilissimo (per non dire inammissibile) allestimento di «Miseria e nobiltà» in scena al San Ferdinando, ho avuto modo di osservare che frequentare la tradizione va non bene, ma benissimo: perché noi siamo la tradizione, siamo quel che siamo stati, e solo camminando sulle tracce del passato possiamo arrivare a un qualche approdo plausibile nel presente. A patto, però, che la tradizione la studiamo, la rispettiamo (sia pure interpretandola sulla base di uno sguardo contemporaneo), non l’affoghiamo nella nostalgia sterile e, soprattutto, non la utilizziamo come alibi, ovvero – ciò che spesso capita – a mo’ del proverbiale tappeto sotto cui nascondere la polvere di un presente vuoto e avvilente.
Ebbene, proprio queste esigenze è venuto a ribadire e soddisfare «Raccontami (Una passeggiata devota)», il recital di Isa Danieli che la compagnia Gli Ipocriti Melina Balsamo ha presentato al Nuovo. Infatti, ben al di là della sua forma, per l’appunto quella del recital, si tratta di uno spettacolo che costituisce un autentico discorso su Napoli, e giusto, in particolare, sul rapporto corretto che dobbiamo avere con la nostra più alta e genuina tradizione.
Per la cronaca, ci viene offerta un’antologia che comprende, nell’ordine, il Manlio Santanelli di «Regina madre», l’Annibale Ruccello di «Ferdinando», l’Ugo Chiti di «Allegretto (perbene… ma non troppo)», l’Erri De Luca di «In nome della madre», la Lina Wertmüller di «Amore e magia nella cucina di mamma», l’Eduardo De Filippo di «Bene mio e core mio» e di «Napoli milionaria!», l’Enzo Moscato di «Luparella» e il Roberto De Simone di «Dedica segreta». Ma ciò che conta è la sapiente e fondata strategia con cui risultano legati fra loro i brani in questione.
Una sorta d’introduzione complessiva, a parte la collocazione nella scaletta, è il brano tratto da «Regina madre». La protagonista racconta al figlio di come conobbe il marito quando andava a prendere i bagni di mare nello stabilimento Sea Garden. Ed è un racconto surreale e iperbolico, in cui compare addirittura un pescecane: sicché siamo di fronte, nello stesso tempo, a un rito, com’è di tutto il teatro di Santanelli, e alla sottolineatura della caratteristica peculiare di Napoli, ossia della sua natura di città «travestita» per eccellenza. Non a caso, quindi, «si traveste» anche la Clotilde di «Ferdinando», rifugiandosi nel rimpianto per il tramontato «splendore» borbonico allo scopo di esorcizzare una realtà che sente come insopportabile.
Ecco, allora, che arriviamo a un altro dei temi forti del recital di Isa Danieli, l’uso che si fa del passato. La Clotilde di «Ferdinando», l’abbiamo appena visto, lo privilegia, assumendolo come una corazza, mentre Gennaro Jovine, il protagonista di «Napoli milionaria!», si lamenta con Amalia del fatto che nessuno ne vuol più sentir parlare: «Primma ‘e tutto pecché nun è colpa toia, ‘a guerra nun l’hê voluta tu, e po’ pecché ‘e ccarte ‘e mille lire fanno perdere ‘a capa…». E dunque il segreto – questo il messaggio, severo e consolante insieme, che lancia «Raccontami» – sta nell’unire passato e presente, nel condensare la storia, tutta la storia, nel qui e ora.
Al riguardo il cuore pulsante del discorso è costituito da «Luparella». In quello splendido testo di Moscato assistiamo, come si sa, alla rivolta di Nanà, una che fa i servizi «minuti» in un casino dei Quartieri Spagnoli: dopo aver aiutato la vecchia prostituta Luparella a mettere al mondo una sua tardiva creatura, uccide – con le stesse forbici con cui aveva tagliato il cordone ombelicale – il soldato tedesco che s’accanisce a violentare tra sangue e urina il corpo inerte di quella madre «clandestina», morta durante il parto. E su tanto marciume, su tanto dolore, su tanta disperazione, sulla carne indifesa di una realtà ridotta alla sua banalissima evidenza, sulle «ciocche d’ ‘e capille, ‘nfose e nere comm’a posa d’ ‘o ccafè», accade che cali l’immemore carezza di un’infantile preghiera a rima baciata: «Santa Rita ‘e Luparella, / sparpetea ‘sta puverella: / è ‘nu sciore, fall’arapi’, / ‘nu bucciuolo, dice sì»… E persino la luna si fa «umana, petulante». Entra «in confidenza cu tutto chello ca se perde, cu tutto chello ca va sott’acito dint’all’anema d’ ‘e ccase».
Proprio così, noi dobbiamo fare come la luna di Moscato, «entrare in confidenza» con tutto quello che si perde, senza dimenticare, però, che viviamo nel presente. In fondo, si tratta di recuperare gli «usi e costumi» descritti ne «La marcia di Radetzky» da Joseph Roth: «Tutto ciò che cresceva aveva bisogno di un lungo periodo di tempo per crescere; e tutto ciò che spariva aveva bisogno di un lungo periodo di tempo per essere dimenticato. Tutto ciò che una volta era esistito, aveva lasciato la sua traccia: e allora si viveva di ricordi come oggi si vive della facilità di dimenticare alla svelta e per sempre».
Questo, insomma, è il rapporto giusto e proficuo da stabilire con la tradizione. E non a caso ce lo conferma un’attrice come Isa Danieli, che prima è stata in palcoscenico al fianco di Eduardo De Filippo e poi è diventata la musa della drammaturgia post-eduardiana, appunto quella di Santanelli, Ruccello e Moscato. Così come non è un caso che «Raccontami» si chiuda nel segno del Roberto De Simone che – ne «La Gatta Cenerentola», di cui ancora Isa fu tra i protagonisti – ad un tempo rievocò e reinventò la grande cultura della civiltà contadina. Il Roberto De Simone che, nella «Dedica segreta», parla dell’immigrata che «oggi vive a Napoli in via Petrarca o in via Manzoni, qui fa la cameriera, guadagnando i soli cocci delle sue giornate. A volte la figlia della sua signora, travestita da rivoluzionaria, le dice: “Maria, pulisci le scarpe” e lei obbedisce, perché l’altra non sa che sempre, e solo lei, è la Madonna».

                                                                                                                                          Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 2/1/2020)

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