Non ci sono miseria e nobiltà, ma solo miseria e miseria

Lello Arena in un momento di «Miseria e nobiltà», in scena al San Ferdinando (la foto è di Mario Pellegrino)

Lello Arena in un momento di «Miseria e nobiltà», in scena al San Ferdinando
(la foto è di Mario Pellegrino)

NAPOLI – Poi dice che non è vero che, in questa città, ad intervalli più o meno regolari si vedono a teatro sempre le stesse cose. Tre anni fa, in vista del Natale, ci venne proposto al San Ferdinando un allestimento di «Miseria e nobiltà» prodotto dallo Stabile di Napoli e diretto da Arturo Cirillo. E adesso, ancora in vista del Natale e ancora al San Ferdinando, ci viene proposto un altro allestimento della celeberrima commedia di Scarpetta, stavolta prodotto da Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro e diretto da Luciano Melchionna.
Ora, frequentare la tradizione va non bene, ma benissimo: noi siamo la tradizione, siamo quel che siamo stati, e solo camminando sulle tracce del passato possiamo arrivare a un qualche approdo plausibile nel presente. A patto, però, che la tradizione la studiamo, la rispettiamo (sia pure interpretandola sulla base di uno sguardo contemporaneo), non l’affoghiamo nella nostalgia sterile e, soprattutto, non la utilizziamo come alibi, ovvero – ciò che spesso ho dovuto rilevare – a mo’ del proverbiale tappeto sotto cui nascondere la polvere di un presente vuoto e avvilente.
Mi sembra utile, perciò, ripetere – prima di affrontare l’analisi dell’allestimento in scena al San Ferdinando – quello che scrissi sul «Corriere del Mezzogiorno», a proposito di Scarpetta in generale e di «Miseria e nobiltà» in particolare, quando si seppe che Mario Martone avrebbe dedicato proprio al padre dei De Filippo un film interpretato da Toni Servillo.
Con la «conquista» capitalistica del Meridione, decadono i valori espressivi, linguistici e letterari del teatro dialettale popolare, chiude il San Carlino, che di quel teatro (e di Pulcinella e del suo più grande interprete, Antonio Petito) era il tempio, e s’impone un nuovo modello di vita e di cultura, di derivazione francese e subito fatto proprio dalla borghesia (e soprattutto dalla piccola borghesia) emergente. E il tramite di quel modello fu per l’appunto Scarpetta, che davvero non a caso si diede a reinventare in napoletano il vaudeville.
Del resto, che Scarpetta sia stato un autore organico alla borghesia lo dimostra ampiamente e inoppugnabilmente proprio la sua commedia più riuscita e più nota: giusto «Miseria e nobiltà», in cui, a conti fatti, chi vince – sia pure dopo aver subìto, da parte dell’autore, infinite caricature – è Gaetano Semmolone, ex cuoco ridicolo e ignorantissimo ma che (e questo conta!) ha i soldi e in casa del quale, dunque, i diseredati di turno dovranno andare a sottomettersi se vogliono mangiare.
Difatti, in quel testo Felice Sciosciammocca pronuncia una battuta che rappresenta un vero e proprio manifesto dell’ideologia di Scarpetta: «E pure, che bella cosa è fa’ lo nobele. Rispettato, ossequiato da tutti… cerimonie, complimenti… È un’altra cosa, è la vera vita! Neh, lo pezzente che nce campa a fa’? Il mondo dovrebbe essere popolato di tutti nobili… Tutti signori, tutti ricchi. Pezziente no nce n’avarrieno da sta’. Eh, e si no nce starrieno pezziente, io e Pascale sarriemo muorte… Nce ha da sta’ la miseria e la ricchezza, se capisce…».
In proposito, miglior commento non potrebbe darsi di quello stilato da Croce ne «La Critica» del giugno 1937: «… Dove c’è da notare quella singolare deduzione sillogistica: la miseria non dovrebbe esistere, ma se la miseria non esistesse, io e il mio amico saremmo morti. Il povero diavolo non riesce nemmeno a immaginare che esso e il suo amico possano avere altra parte nel mondo che quella di miserabili, necessaria al mondo e che nessuno, per destinazione di natura, esercita meglio di essi».
Ebbene, nell’adattamento del testo originale di Scarpetta in scena al San Ferdinando, un adattamento firmato dallo stesso Melchionna e da Lello Arena, quella battuta, la battuta che a Croce parve tanto significativa, non c’è. E non si tratta di un caso: perché l’allestimento in questione si pone, in tutta evidenza, l’unico scopo di strappare risate facili e spensierate, adottando a tal fine gli espedienti più elementari, abusati e logori della tradizione farsesca nostrana. A partire dallo scambio e dalla stroppiatura delle parole.
Eccovene qui di seguito qualche esempio: «spagnola» al posto di stagnola, «brocca» al posto di bocca, «galante» al posto di garante, «maglia dei saluti» al posto di maglia della salute, «corriere» al posto di corredo, «stalle a Titty» al posto di stalattiti, «scenografie» al posto di sceneggiate. E l’ultimo di questi esempi serve anche a fornire una prova di come l’insieme risulti banalmente strumentale oltre che di un livello non proprio eccelso sul piano espressivo: infatti, Concetta c’informa che a parlare sempre di «scenografie» è il marito, giacché a Pasquale – che nel testo di Scarpetta è un salassatore – Melchionna e Arena attribuiscono il mestiere di un figurante che raccatta scarsi e rari quattrini partecipando a film di quart’ordine o ai funerali in veste di lacrimatore; e la trovata obbedisce, con altrettanta evidenza, all’intento di dar luogo al solito piagnisteo sull’attore vilipeso e sfruttato non meno che spesso disoccupato.

Da sinistra, Lello Arena, Andrea de Goyzueta e Maria Bolignano in un altro momento dello spettacolo (la foto è di Federica Di Benedetto)

Da sinistra, Lello Arena, Andrea de Goyzueta e Maria Bolignano in un altro momento dello spettacolo
(la foto è di Federica Di Benedetto)

Altre «invenzioni» di Melchionna e Arena risultano, invece, piuttosto incomprensibili: perché Pupella, che nel testo di Scarpetta è quel che oggi si direbbe una ragazza acqua e sapone, viene trasformata in una volgare fraschetta della suburra, che non si perita di dare del «cessa» a Luisella e, quando Luigino le chiede di lasciarsi baciare almeno la mano, risponde: «Parlate con mamma e papà, e con il loro consenso ve la faccio baciare… la mano!»?; e perché la Concetta che s’abbandona voluttuosamente agli strafalcioni di cui sopra tenta nello stesso tempo, e del tutto incongruamente, di accumularne altri in inglese, tipo il «Ti devi mettere un poco Stan Bau!» rivolto alla furente Luisella? e perché, infine, il padrone di casa parla con una smaccata cadenza romanesca?
Basta, via. I teatranti sono padronissimi (assumendosene, s’intende, ogni responsabilità) di stravisare un testo, piegandolo ad ogni loro esigenza di carattere narcisistico o semplicemente commerciale. Ma non possono, assolutamente, pretendere pure di prenderci per i fondelli, mascherando l’intento di far ridere e ridere un pubblico di bocca buona con l’aggiunta alla rappresentazione d’inopinati pistolotti in chiave cultural-politica. Pensate che qui, sempre per fare degli esempi, Felice a un certo punto si lancia in un risentito anatema contro gli studenti che non studiano, i genitori ai quali non gliene frega niente se i figli non studiano e gl’ignoranti che non conoscono la lingua italiana, che non leggono mai un libro e che, naturalmente, non entrano mai in un teatro; e Pasquale, dal canto suo, s’incarica di fare l’anti-Salvini della situazione assumendo il ruolo di difensore d’ufficio della «povera gente che sbarca in un paese straniero e invece di essere accolta e compresa viene schifata come si schifano solo i poveri».
Il tutto si conclude, poi, con la più incomprensibile delle «invenzioni»: nel testo di Scarpetta l’ultima battuta, rivolta da Felice a Peppeniello, è: «Sì, pateto, che ha passato tanta guaje, fra la miseria vera e la falsa nobiltà!», mentre nell’adattamento di Melchionna e Arena quella battuta diventa: «Sì, il tuo papà, che ha passato tanti guai, fra la vera miseria e la falsa…miseria», con la precisazione: «tra miseria e miseria, altroché…nobile, umana…miseria». Che diavolo significa, di grazia?
Ma il bello (cioè il brutto, per gl’ideatori e i realizzatori di questo spettacolo) è che, ad onta dei citati sforzi per far ridere ad ogni costo, si ride assai poco. E men che meno fanno ridere i costumi di un variegatissimo buffo ideati dalla non meglio individuabile costumista Milla. La cronaca del debutto registra solo risatine sporadiche e striminzite da parte di parenti e amici, a cominciare, fra questi ultimi, da un signore che dalla prima fila si sbracciava invocando a gran voce Lello Arena e comunicando a tutti gli astanti di aver acquistato il libro autobiografico dello stesso Arena «Io, Napoli e tu», senza trascurare d’informarli che il suo titolo deriva da quello della canzone di Modugno «Io, mammeta e tu».
Sempre per la cronaca, preciso che le idee che connotano l’allestimento e addirittura molte delle parole comprese nelle note di regia di Melchionna son prese pari pari dalla premessa a «Miseria e nobiltà» scritta da Romualdo Marrone per l’edizione di «Tutto il teatro» di Scarpetta pubblicata dalla Newton nel 1992: vedi «i personaggi simili a ombre che portano il corpo con sé» e gli spaghetti che piovono dall’alto «come un dono del buon Dio». E del resto, l’ambientazione della squallida dimora di Felice e Pasquale «in uno scantinato/discarica» ricalca fedelmente la riduzione a una sorta di tana di topi sotterranea, a cui si accedeva attraverso una botola, della stanza dell’affittacamere Violante nella messinscena di «Persone naturali e strafottenti» di Patroni Griffi firmata da Melchionna nel 2010.
Non resta che, ancora per la cronaca, annotare che nei ruoli principali figurano appunto Lello Arena (Felice), Maria Bolignano (Luisella), Andrea de Goyzueta (Pasquale), Giorgia Trasselli (Concetta), Luciano Giugliano (Gaetano Semmolone), Carla Ferraro (Bettina), Marika De Chiara (Gemma) e Irene Grasso (Pupella). E chiudo ricordando che, a proposito dello spettacolo «Parenti serpenti», dato nel 2017 e prodotto sempre da Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro, fui prodigo di elogi, per l’accoppiata Luciano Melchionna-Lello Arena, come assai raramente ero stato nel corso degli ormai cinquant’anni e passa della mia attività professionale. Evidentemente, non basta, a garantire la bontà della torta, l’utilizzo sistematico della stessa forma. E altrettanto evidentemente, ci tocca oggi il tempo della delusione e della disillusione.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

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8 risposte a Non ci sono miseria e nobiltà, ma solo miseria e miseria

  1. Geppi Liguoro scrive:

    Caro Enrico,
    mi dispiace che non ti sia piaciuto il nostro spettacolo ma rispetto, come sempre, il tuo punto di vista. Mi dispiace anche perché è la prima recensione negativa tra le tante buone e qualcuna addirittura entusiasta.
    Mi permetto solo di fare due precisazioni.
    E’ assolutamente vero, come tu sottolinei, che la sera della “prima” c’era un pubblico gelido che poco partecipava allo spettacolo, un pubblico sorprendente per me che ero in sala e che non riuscivo a capire quel distacco, non me lo spiegavo perché in sala ci ero stato anche a Roma, a Bologna, in Toscana, in Sicilia, e dovunque, credimi, dovunque, il pubblico partecipava, rideva, applaudiva a scena aperta e andava via contento al termine dello spettacolo. Un entusiasmo che abbiamo ricevuto anche alla seconda e alla terza replica al San Ferdinando, per le quali abbiamo incontrato un pubblico completamente diverso da quello della “prima”. D’altronde la tua infinita esperienza ci può insegnare molto sulle caratteristiche del pubblico delle “prime” napoletane.
    Inoltre vorrei precisare che lo spettacolo sta vendendo molti biglietti e che il teatro è quasi pieno tutte le sere, abbiamo pochi inviti a disposizione e la sera della “prima” di amici e parenti ce ne erano quattro, e quel signore che urlava in prima fila non abbiamo idea di chi fosse.
    Si, ricordo bene la bellissima recensione che scrivesti su “Parenti serpenti”, uno spettacolo di grande successo che è giunto al suo quarto anno di tournée e che forse continuerà la sua vita anche nella prossima stagione.
    Comunque, ti ringrazio di essere venuto e ti ringrazio di seguire i nostri lavori sempre con grande attenzione. Sappiamo che non sempre possiamo incontrare il tuo consenso ma ci fa piacere che continui a seguirci.
    Un caro saluto
    Geppi Liguoro
    Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro

  2. Enrico Fiore scrive:

    Caro Geppi,
    non è esatto dire che questo spettacolo “non mi è piaciuto”. Io non esprimo giudizi di gusto, quelli sarebbero giustificati se stessimo parlando di pasta e fagioli o di parmigiana di melanzane. Io, ormai da oltre mezzo secolo, svolgo – con gli strumenti della filologia e alla luce del confronto con gli allestimenti precedenti di un determinato testo – analisi fondate su dati di fatto, in quanto tali incontrovertibili. Ed è a partire da questi che bisognerebbe rispondermi: a partire, per esempio, dalla circostanza che le idee e le parole delle note di regia relative al vostro allestimento di “Miseria e nobiltà” discendono dalla premessa al testo in questione scritta da Romualdo Marrone per l’edizione di “Tutto il teatro” di Scarpetta pubblicata dalla Newton; e che l’impianto scenografico per quest’allestimento di “Miseria e nobiltà” ricalca pari pari quello approntato da Melchionna per il suo allestimento di “Persone naturali e strafottenti” di Patroni Griffi del 2010.
    Per quanto poi riguarda i giudizi positivi espressi su questo spettacolo da altri, li ho letti (ne ho letto anche, su un quotidiano napoletano, uno non propriamente positivo); e in proposito mi limito a rilevare, consentimi la precisazione, che sono stati espressi, nella quasi totalità dei casi, con semplici trafiletti, ben lontani dalla lunghezza (poco meno di 200 righe di sessanta battute l’una, un vero e proprio piccolo saggio) del mio “pezzo” e dalle sue argomentazioni, prima fra tutte quella determinata dal giudizio espresso su “Miseria e nobiltà” da quel carneade che si chiamava Benedetto Croce.
    Comunque, ognuno è padronissimo di pensarla come vuole. E per quanto concerne, infine, l’accoglienza ricevuta da quest’allestimento di “Miseria e nobiltà” fuori Napoli e a Napoli nelle sere successive alla “prima”, non ho alcun commento da fare: io scrivo di quello che vedo e sento la sera in cui assisto allo spettacolo.
    Un caro saluto anche a te.
    Enrico Fiore

  3. Raffaele Mastroianni scrive:

    Enrico carissimo,
    se il teatro è anche un modo di riflettere sulla situazione e la cultura di un paese, questo spettacolo e questa recensione ne sono una conferma.
    Qualcuno pensa che a Natale siamo tutti più buoni, nel senso partenopeo (quasi sinonimo di fesso) dell’aggettivo.
    C’è una napoletanità banale e bassa, tanto amata nel Palazzo di Città e anche nel non lontano Stabile.
    Ho nostalgia di quando il Teatro pubblico era sinonimo di approfondimento e di coraggio: approfondimento non sempre efficace, certo, ma comunque cercato. E ricordo che il San Ferdinando è stato il teatro di Eduardo ma anche dell’ETI (vi comparve, fra gli altri, Carmelo Bene), quindi meriterebbe più attenzione e conoscenza.
    Una volta, a Natale, per divertirsi in modo lieve c’era la sceneggiata. E ancora oggi ho nostalgia per i vari Mattera, Liliana, Maggio, Trottolino e altri: grandi artisti che rispettavano il pubblico.
    Sì, Scarpetta organico alla borghesia, senza alcun dubbio e senza alcuna valenza negativa in questo.
    Ora ti faccio pubblicamente una domanda che mai ho osato farti.
    Affetto e stima a parte, qual è il tuo giudizio nel merito dei testi e del teatro del grande Eduardo?
    Nella banalizzata dicotomia Eduardo-Viviani, dove ti trovo?
    Nei giorni di festa non possono mancare gli auguri: spero di ritrovarci assieme nel prossimo anno, qualche volta in più a sorridere di un buon lavoro in una delle sale in cui spesso ci incontriamo.
    Buon anno, prezioso narratore.
    Raffaele Mastroianni

  4. Enrico Fiore scrive:

    Buon anno anche a te, caro Raffaele. E per quanto riguarda la domanda che mi fai (davvero terribile, visti i mille e giganteschi problemi a cui rinvia), ti rispondo – assai schematicamente, per il momento – che i testi e il teatro di Eduardo vanno considerati e valutati su un piano prettamente storico, prescindendo dalle sollecitazioni che quei testi e quel teatro esercitano sul piano sentimentale e, per così dire, “patriottico”; mentre, per ciò che attiene alla dicotomia (hai proprio ragione a definirla “banalizzata”!) Eduardo-Viviani, non ho mai fatto mistero della mia preferenza per Viviani: a partire dalla sua lingua, che è “costitutiva” e non semplicemente “narrativa” come quella di Eduardo.
    Enrico Fiore

  5. Carla Palma scrive:

    Ho visto ieri lo spettacolo e mi domando: che bisogno c’era di stravolgere e dilaniare in modo orrendamente isterico un testo che è marchiato a fuoco nel nostro DNA? Per un nuovo impellente messaggio di cui mi sfuggono senso ed importanza? E’ come se i realizzatori di quest’allestimento di “Miseria e nobiltà” dovessero allineare ogni cosa alla consegna imperante dell’ambiguità: tutto mi è apparso liquido e sfuggente.
    Non ci sono punti di riferimento di nessun tipo: non nell’abbigliamento, che mischia stili e tessuti antichi e ultramoderni strapazzandoci le idee con suggerimenti fra loro completamente dissonanti, richiamando ora Elton John ora Freddie Mercury e poi Cat Woman, gli invitati del “Boss delle Cerimonie”, Enrico VIII e Totò in “Fifa e arena”, Morticia, e sfuggendo in ogni modo ad una collocazione temporale; e così anche nel linguaggio, in cui, accanto a termini desueti, ne appaiono altri di uso contemporaneo e in cui gli accenti si confondono come in una babele impedendo anche una definizione precisa dei luoghi e, in alcuni casi, imponendosi in modo completamente incongruo, com’è della parlata romanesca del padrone di casa. Senza contare che Semmolone, più che un cuoco arricchito, sembra un emulo del proprietario della Cage aux Folles nel “Vizietto”.
    In tal modo anche le identità degli attori sfuggono a una catalogazione di genere: maschi e femmine dalle identità, per l’appunto, ambigue: donne che interpretano uomini e uomini dalle movenze femminee. E poi la ricerca della battuta facile e sguaiata, il sermone di Lello Arena… non mi è piaciuta questa versione di “Miseria e nobiltà” semplicemente perché non mi è sembrata una rilettura ma una violenza al testo gratuita, e per giunta a tratti un po’ stupida. In certi casi sarebbe auspicabile ricorrere ad un testo completamente nuovo…e allora forse il discorso sarebbe diverso.
    Carla Palma

  6. Enrico Fiore scrive:

    Cara amica,
    come si vede, il suo commento ricalca pari pari la mia recensione. Anzi, quest’ultima avrebbe potuto benissimo firmarla lei.
    Grazie dell’attenzione e tanti cordiali saluti, oltre, naturalmente, ai più sentiti auguri per il nuovo anno.
    Enrico Fiore

  7. Antonio D'Alessandro scrive:

    Il mio commento è tardivo ma congruo all’occasione di avere visto lo spettacolo su Raiplay.
    Le notazioni critiche di Enrico Fiore sono, soprattutto per la loro natura storico-filologica, pienamente condivisibili. Aggiungo di mio la noia che ha cominciato a prendermi dopo le prime battute ma che si è rivelata insopportabile con l’ingresso di Lello Arena, querulo e discorsivo come sempre. E dire che l’inizio, con i personaggi che si muovono nella creazione di quel sottofondo scenico di facile senso analogico ma efficacemente riferito ai bassifondi cittadini, mi ha interessato, salvo poi diventare a sua volta insopportabile quando i personaggi hanno cominciato ad arrampicarsi e a saltare le transenne. Chiudo chiosando su Lello Arena, che, dopo la caratterizzazione da spalla isterica e petulante di Troisi, non è riuscito a trovare una sua dimensione da solista. Inevitabilmente, quando lo vediamo in scena, non possiamo fare altro che rimpiangere l’epoca d’oro del suo sodalizio con Massimo.
    Antonio D’Alessandro

  8. Enrico Fiore scrive:

    Gentile Antonio,
    mi fa piacere che lei sia d’accordo con me. Purtroppo, lo spettacolo in questione è un disastro. E a mia volta sono d’accordo con lei a proposito di Lello Arena.
    Enrico Fiore

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