Quella «Cantata» che sconfisse i gesuiti

Peppe Barra in un momento de «La cantata dei pastori», in scena al Politeama (le foto che illustrano questo articolo sono di Fiorella Passante)

Peppe Barra in un momento de «La cantata dei pastori», in scena al Politeama
(le foto che illustrano questo articolo sono di Fiorella Passante)

NAPOLI – Riporto il commento pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Sono quarantacinque anni che, ad intervalli più o meno regolari, Peppe Barra porta in scena «La cantata dei pastori»: prima come coprotagonista, poi come mattatore al fianco di una mattatrice, sua madre Concetta, e infine come autore, regista e interprete insieme. È una storia che cominciò con la leggendaria edizione della «Cantata» allestita nel ’74, al San Ferdinando, da Roberto De Simone e dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare; e che adesso prosegue con il riallestimento della celeberrima opera che Barra presenta al Politeama.
Parliamo, s’intende, di uno dei capisaldi della tradizione teatrale napoletana. E dunque è opportuno riassumere di che cosa si tratta: abbiamo da un lato «Il Vero Lume tra l’Ombre, overo la spelonca arricchita per la Nascita del Verbo umanato» (come suona il titolo della sacra rappresentazione che l’abate Andrea Perrucci, con lo pseudonimo «Dottor Casimiro Ruggiero Ugone», pubblicò nel 1698 presso Paci) e dall’altro, per l’appunto, «La cantata dei pastori» (come suona il titolo che quella sacra rappresentazione assunse in seguito presso il pubblico).
Di conseguenza, abbiamo da un lato quello che è un autentico modello del teatro epico-didascalico ideato e diffuso dai gesuiti nell’ambito della Controriforma cattolica (un modello in cui, a scopo edificante, vengono mescolati il simbolo e la quotidianità, il rito e la fiaba) e, dall’altro, il rimaneggiamento e la «contaminazione» di quel modello determinati attraverso i secoli dalla fantasia e dal sentimento del popolo: un rimaneggiamento e una contaminazione che, sulla traccia della geografia ideologica e delle coordinate espressive al popolo connaturate, hanno reinventato la lezione della Commedia dell’Arte, e cioè proprio le forme e i ritmi della commedia «all’improvviso» che il Perrucci intendeva combattere come volgare e peccaminosa.
Nel merito, mi sembra utile citare un passo de «Il sole e la maschera», la fondamentale analisi antropologica che appunto a «La cantata dei pastori» dedicò Annibale Ruccello: «Nell’azione teatrale del Perrucci, Razzullo, da maschera di Largo Castello, viene promosso scrivano, divenendo così uno di quei “tipi napoletani” (…) di cui abbondava il teatro gesuitico. Inoltre gli si nega qualsiasi secondo zanni o alter-ego con cui dialogare e lo si costringe in una recitazione senza lazzi, ove il lazzo, che era (…) tipico della Commedia dell’Arte, poteva permettere proprio la denuncia di quelle scottanti realtà psicologiche e sociali che il nostro autore tendeva a negare».
Ebbene, provvide il popolo, appropriandosi «Il Vero Lume tra l’Ombre, overo la spelonca arricchita per la Nascita del Verbo umanato» e dandogli il titolo «La cantata dei pastori», a fornire a Razzullo lo «zanni», l’«alter-ego» che il Perrucci tendenziosamente gli aveva negato. Quello «zanni», quell’«alter-ego», lo sappiamo, si chiamò Sarchiapone. Il personaggio, secondo Vittorio Viviani e Roberto De Simone, venne introdotto nella «Cantata» già nei primi anni del Settecento. E c’è da notare che, davvero non a caso, il termine «sarchiapone» compare sia nella «Posillecheata» di monsignor Pompeo Sarnelli sia ne «Lo cunto de li cunti» di Giambattista Basile.
La coincidenza non è di poco conto: Sarnelli, nel 1674, curò per il libraio-editore Antonio Bulifon un’edizione de «Lo cunto de li cunti», e de «Lo cunto de li cunti» costituisce in pratica una riscrittura la sua «Posillecheata», pubblicata esattamente dieci anni dopo, nel 1684, sempre presso Bulifon; ma è una riscrittura in una forma che mira all’eleganza, esattamente il contrario della scrittura anfibologica (che, cioè, mascherava il significato autentico delle parole) a cui fu costretto Basile per non incorrere, appunto, nelle rappresaglie controriformistiche.

Da sinistra, Peppe Barra e Rosalia Porcaro in un altro momento dello spettacolo

Da sinistra, Peppe Barra e Rosalia Porcaro in un altro momento dello spettacolo

Ancora non a caso, quindi, in «Ferdinando» di Ruccello proprio la «Posillecheata» Clotilde si fa leggere da Gesualda a mo’ di antidoto consolatorio contro il veleno della lingua italiana, da lei considerata «barbara». E in breve – ecco il dato oltremodo significante – si ripropone anche al livello delle fonti del nome Sarchiapone lo scontro fra l’originaria natura gesuitica e la successiva reinvenzione in chiave popolare de «La cantata dei pastori».
A questa reinvenzione, poi, si riferì evidentemente Croce nel suo volume del 1891 sui teatri di Napoli: «Esso («Il Vero Lume», n.d.r.), durante tutto il Settecento e gran parte dell’Ottocento, è stato ritualmente rappresentato la notte di Natale in parecchi teatri di Napoli dei più popolari; e io stesso l’ho ascoltato al Mercadante e alla Partenope in via Foria, alla Fenice in piazza Municipio e al San Ferdinando a Pontenuovo. E proprio ora che ne faccio ricordo, debbo segnare la fine di questa secolare tradizione, perché, in questo Natale del 1889, il prefetto di Napoli, conte Codronchi, l’ha spezzata, proibendo d’ora innanzi la recita natalizia del “Verbo umanato” (o “Cantata dei pastori” come comunemente si chiamava) per ragione d’ordine e di decenza pubblica».
Qui entra in ballo il Viviani, stavolta Raffaele, che in uno dei suoi «canti di festa» ricordò le recite de «La cantata dei pastori» date proprio al Mercadante dai popolani della Duchesca e del Lavinaio: «Tutte artiste dilettante, / sfugature d’ ‘o quartiere: / masterasce, scarrecante, / gravunare, panettiere; / ‘ntusiasmate ‘e fa’ chest’arte / e p’asci’ dinto ‘a “Cantata”, / se pigliavano na parte / d’ ‘e bigliette d’ ‘a “serata”. / E purtavano chi ‘o pato, / chi nu frato cu ‘a mugliera, / chi na sora e ‘o nnammurato, / chi l’intera guagliunera». E accadeva che, a causa di donne troppo scollate, viperini alterchi s’accendessero fra i loro mariti e chi dai palchi occhieggiava quei petti seminudi: «LL’hê guardata? / Mò t’ ‘a porto dint’ ‘o lietto».
Don Raffaele concludeva malinconicamente: «E stu spasso mò è fernuto: / ce so’ gghiuto a na “Cantata”, / ma però me so’ addermuto, / aggio perzo na nuttata. / Senza cchiù chella curnice, / nun teneva cchiù sapore! / ‘A “Madonna” era n’attrice, / “Sarchiapone” era n’attore». Ma si sbagliavano, Croce e Viviani. «La cantata dei pastori» di estrazione popolare si è rivelata più forte sia dei divieti prefettizi che della sua riproposta da parte di attori professionisti. Perché, certo, Peppe Barra è un attore, e che attore; ma, nello stesso tempo, rappresenta, come di recente già m’è capitato di scrivere in questa pagina, l’ultima propaggine della Commedia dell’Arte.
Che cosa dire, al riguardo, quando lo sentiamo, nei panni di Razzullo, chiamare Sarchiapone «scorza ‘e furmaggio rusecata ‘a ‘nu sorice ricchione»? E che cosa dire quando sentiamo Rosalia Porcaro, la prima donna nei panni di Sarchiapone dopo Concetta Barra, dichiarare che – esercitando la professione di barbiere – aspira legittimamente a fare il «cantante a litro», ossia il cantante lirico d’osservanza rossiniana? È la rinascita della gloriosa Commedia dell’Arte nella forma del nostro non meno glorioso varietà, con i personaggi di Razzullo e Sarchiapone che ricreano la coppia canonica del comico e della «spalla».

                                                                                                                                           Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 20/12/2019)

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