In sala prove per un concerto che non si farà

Sylvia De Fanti in un momento di «Wasted», in scena al Teatro delle Passioni di Modena (le foto dello spettacolo che illustrano questo articolo sono di Luca Del Pia)

Sylvia De Fanti in un momento di «Wasted», in scena al Teatro delle Passioni di Modena
(le foto dello spettacolo che illustrano questo articolo sono di Luca Del Pia)

MODENA – In questa fine d’anno mi sono imbattuto in tre donne toste che dal palcoscenico combattono con una violenza sana (quella dell’intelligenza e della creatività) la violenza malata (quella del sessismo) che contro le donne continua a imperversare. La prima, Licia Lanera, la conoscevo, e avevo appena visto, al Metastasio di Prato, il suo allestimento de «Il gabbiano» che fa cadere un’implacabile nevicata sui già ghiacciati cuori dei personaggi di Cechov; e le altre due, Kate Tempest e Giorgina Pi, le ho conosciute ieri sera al Teatro delle Passioni di Modena, in occasione della «prima» dell’allestimento, prodotto da Emilia Romagna Teatro e diretto dalla Pi, del testo della Tempest «Wasted».
Kate Tempest è lo pseudonimo (appropriato quant’altri mai) di Kate Esther Calvert, trentaquattrenne rapper, poetessa, compositrice, «headliner» e polistrumentista di una band hip hop, romanziera, drammaturga e «spoken word» performer londinese. Fu nominata dalla Poetry Book Society «Poetessa della Nuova Generazione», un riconoscimento assegnato una volta ogni dieci anni, in coincidenza con l’enorme successo commerciale e di critica ottenuto dalla sua prima raccolta di versi, il cui titolo, «Hold your own (Resta te stessa)», è diventato in pratica, per la scena culturale inglese, la parola d’ordine della contestazione giovanile. E «Wasted» (il termine risulta pressoché intraducibile, significa, insieme, ubriaco fradicio e consumato, dissipato) si colloca perfettamente in un orizzonte del genere.

Kate Tempest (foto di Alex Gent)

Kate Tempest
(foto di Alex Gent)

Ci troviamo di fronte a due uomini e una donna – Ted, Danny e Charlotte – che s’incontrano per commemorare il loro più caro amico, Tony, morto prematuramente dieci anni prima. Ted fa il magazziniere, Danny il chitarrista in una band di terz’ordine e Charlotte l’insegnante. Ma, ad intervalli regolari, smettono i panni di singoli personaggi per confondersi in un coro anonimo che, a mo’ di quello della tragedia greca, s’incarica di commentare problemi e situazioni generali. Dicendo, tanto per mettere subito in campo un esempio riassuntivo: «Ci siamo resi conto / che la vita è tutta qui. / Non c’è nient’altro. / Guardare dentro / una bottiglia vuota / e chiederle di darcene / ancora. / I cuori pulsano / più lenti di una volta, stressati dalle bollette da pagare, / milioni di distrazioni pur di sfangare la giornata, / con le facce sempre più ceree. Non è più il nostro mondo. / Ormai è di qualcun altro».
A questo passo (vado citando la traduzione di Riccardo Duranti) segue, quasi un eco, l’interrogativo: «Come facciamo a risorgere e riprendere in mano le redini, quando la sola cosa che ci va di fare è ammazzare i sogni e mandare i nostri cervelli a schiantarsi in un angolo di un rave?». E l’ipotesi (nemmeno più la speranza o l’illusione, appena l’ipotesi) di un cambiamento si riduce, sempre secondo il coro costituito da Ted, Danny e Charlotte, all’ossimoro seguente: «Giuro che possiamo cambiare qualcosa. / Non cambiamo un bel niente. / Il cambiamento gonfia il petto. / Il cambiamento si butta di sotto. / Il cambiamento corre, / è a corto di fiato, / il cambiamento cade. / Il cambiamento fa appello alla sua gente, / la gente del cambiamento non dice niente. / Non cambia niente».
Infatti, Charlotte, che aveva deciso di lasciare per sempre la propria aula puzzolente con l’orologio rotto e i cartelloni appiccicati alle pareti con gli angoli che si stanno staccando, non ci mette molto a cambiare idea. E disperato è il suo tentativo di trovare conforto in un dialogo immaginario con Tony, ordinando anche per lui, in un bar, lo stesso bicchiere di birra e prendendo, a turno, un sorso dall’uno e dall’altro bicchiere. In fondo, sia lei che Ted e Danny non provano, per Tony, rimpianto o nostalgia, ma unicamente invidia: perché, dice Danny, «[…] hai una gran fortuna, lo sai, Tony? Se fossi vissuto fino a oggi, saresti solo diventato grasso e noioso come noialtri. Non saresti stato diverso. Non sei invecchiato abbastanza per vedere il tuo migliore amico diventare uno strambo con addosso il chiodo di vilpelle, che incespica nel parlare per via delle droghe che prende, sembra avere la bocca piena di spine di pesce e non fa che dondolare la testa».

Da sinistra, Xhulio Petushi, Sylvia De Fanti e Gabriele Portoghese in un altro momento dello spettacolo

Da sinistra, Xhulio Petushi, Sylvia De Fanti e Gabriele Portoghese in un altro momento dello spettacolo

Già, è davvero spietato il testo della Tempest. Ma, contemporaneamente, non è affatto privo di sbocchi: costituendo esso stesso un ossimoro, trova il viatico di una possibile salvezza (e in ciò consiste il suo non comune valore) nella lucidità senza ipocrisie o mercimoni con cui disegna il quadro di una certa generazione di mezzo odierna riuscendo, insieme, a individuare e sottolineare i barlumi di coscienza che pur in tanto buio continuano a spasimare. Avviene, poniamo, quando Ted, sempre nel corso di un dialogo immaginario con Tony, accusa Danny, che ha una relazione con Charlotte, di «trattare le donne come pezzi di merda perché detesta se stesso per non aver avuto mai le palle di mettersi in secondo piano e di impegnarsi con una di loro».
Dal canto suo, adeguatamente in linea con tutto questo si dimostra la regia di Giorgina Pi. La Pi fu tra i fondatori del collettivo romano «Angelo Mai», che collabora con Emilia Romagna Teatro nella produzione di questo spettacolo firmato da Bluemotion, la formazione di registi, musicisti, artisti visivi e performer nata all’interno dello stesso «Angelo Mai». E lo scopo fondamentale del collettivo, Premio Ubu Franco Quadri nel 2016, è, non a caso, la «politicizzazione dell’estetico». Così Giorgina Pi può dichiarare, essendo del tutto sincera e altrettanto convincente, che lo spettacolo di cui parliamo «vuole onorare le esistenze che si sentono sprecate, il dolore che si prova quando ci si sente condannati all’ineluttabilità di una vita non scelta, predestinati a una condizione materiale e spirituale di infelicità».
Di conseguenza, la Londra della Tempest viene «spersonalizzata» e ridotta a una sala prove che ospita i tentativi di preparare un concerto: tentativi, attenzione, che perennemente falliscono e, nondimeno, perennemente vengono rinnovati. Torna subito in mente – ed ecco l’alto approdo dello spettacolo – la battuta che ne «La forza dell’abitudine» di Bernhard pronuncia Caribaldi, il direttore di circo che da ventidue anni impone inutilmente a se stesso e ai suoi compagni di provare il «Quintetto della trota» di Schubert: «Noi non vogliamo la vita, eppure la si deve vivere».
Particolarmente «attrezzati» per il compito che devono svolgere risultano infine gl’interpreti in campo, Gabriele Portoghese (Ted), Xhulio Petushi (Danny) e Sylvia De Fanti (ovviamente Charlotte). Sono, insieme, attori e musicisti, e quindi inverano l’esigenza – quella di rendere la musica in forma drammatica – per cui nacque l’opera lirica. Giacché, in fondo, è un melodramma contemporaneo questo «Wasted» di Kate Tempest.
Così, straziata e appassionata nello stesso momento appare l’esecuzione de «La donna cannone» di De Gregori. E davvero non si tratta di una canzone scelta a caso. È, invece, una canzone scelta con piena cognizione di causa, allo scopo di collegarsi ai barlumi di coscienza che prima ho rilevato.
Dicono i versi finali di quella canzone: «E senza fame e senza sete / e senza ali e senza rete voleremo via…». E rimandano al significato profondo del testo, perfettamente colto (ve l’avevo detto che è una tosta) da Giorgina Pi. Questa discesa agl’inferi nasconde il bisogno di ritrovare l’innocenza perduta. E allora, alla fine, arrivano tre bambini – s’intende, il Ted, il Danny e la Charlotte bambini – che inscenano, nella foresta ipertecnologica disegnata dai sottili fasci di fili luminosi di Andrea Gallo, il gioco immemore di un girotondo. Mentre ancora il coro scandisce l’ultima battuta: «La vita vi chiama – vi fa cenno – si fa immensa. / Rispettatela – e accoglietela tra le vostre braccia. / Entrateci in contatto e affrontatela a viso aperto. / La vita vale / molto di più. / E non va / sprecata».

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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